Fratelli di confine, dalla parte degli ultimi

Oltre la frontiera Don Renzo Beretta e padre Cornelius Koch: testimoni di accoglienza, vicini alla “povera gente”

«Il nostro cuore è diventato di sasso. Non sappiamo più comprendere il bisogno degli altri. In questo mondo, o ci aiutiamo o siamo della povera gente. Stiamo diventando degli animali». L’avvertimento, come da consuetudine, è pronunciato da don Renzo Beretta col sorriso, in modo duro ma senza aggressività.

La testimonianza è presente in un video recuperato dagli archivi della Caritas comasca: fuori dalla sua parrocchia di Ponte Chiasso, il sacerdote impegnato nell’accoglienza metteva in guardia la città sui rischi che comporta l’indifferenza verso gli altri esseri umani.

Lo stesso concetto è ripetuto da padre Cornelius Koch, svizzero, prete di frontiera, considerato, in Ticino, un punto di riferimento per tutti i “diseredati”, e, soprattutto, “fratello” nell’azione e nell’accoglienza di don Beretta. «La triste carovana – raccontava nel 2001, riferendosi ai migranti presenti nella nostra città - se ne va da qualche parte, il suono del campanello si spegne. Al centro della Croce Rossa di Tavernola non si hanno più avute notizie di loro. Forse sono finiti anche loro nelle fognature di Como, dove dormono centinaia di loro simili, espulsi ovunque. “Uomini topi”, come vengono chiamati da queste parti».

La richiesta

Il loro rapporto cominciò con una semplice richiesta da parte di Koch: una stanza per ospitare i profughi. Il sacerdote lariano gli aprì la chiesa e da allora hanno lavorarono sempre insieme. Diedero vita, infatti, a un movimento di solidarietà transfrontaliero molto vasto e partecipato, in grado di coinvolgere, di qua e di là della frontiera, centinaia di persone. Il percorso ebbe, purtroppo, una frenata brusca: l’assassinio di don Beretta, avvenuto il 20 gennaio 1999, accoltellato a morte da una persona cui lui stesso aveva aperto le porte del proprio centro per rifugiati e respinti.

In quasi trent’anni, circa 10mila profughi avevano trovato rifugio nella parrocchia cittadina. Il campanile della chiesa era stato trasformato in un dormitorio. Per le persone, espulse da ogni parte e respinte alla frontiera dalla Svizzera, quella era la prima porta che si apriva. Due appartamenti, l’uno sopra l’altro, con otto letti, una sala da pranzo, un bagno. C’era anche un altro locale in cui dormivano i migranti: una stanza accanto al portone centrale della chiesa. Mediamente venivano ospitati cinquanta per notte. Spesso, era la stessa polizia di frontiera di Ponte Chiasso a bussare a quella porta.

Pochi chilometri più a Nord, padre Koch, nato nel 1940 in Romania da una famiglia di rifugiati economici svizzeri, organizzava la festa nazionale svizzera alternativa, mettendo la Confederazione di fronte alle proprie responsabilità: «Abbiamo la legge sui rifugiati più restrittiva del mondo», commentava.

La bandiera

In un’occasione aveva bruciato la bandiera svizzera e la carta dei diritti europei per sensibilizzare sul tema dei rifugiati. Gesti molto forti, che non mancavano di suscitare le critiche dei benpensanti.

Koch spediva denaro e coperte a Don Renzo grazie all’aiuto di 15 volontari e dei suoi 10 mila sostenitori elvetici, tra cui il celebre clown Dimitri e l’architetto Mario Botta.

«Attraverso la dogana e passo dinnanzi alla Chiesa di Ponte Chiasso. Proprio qui, due anni fa, padre Renzo Beretta è stato ucciso da un povero disperato», scriveva vent’anni fa il religioso svizzero in una testimonianza raccolta da “Swiss Info”. «Durante il viaggio in automobile mi attraversano alcuni pensieri. “Come è possibile che la morte di questo modesto prete di campagna abbia commosso mezza Europa. Cinquemila persone hanno partecipato al suo funerale nel Duomo di Como, un ministro italiano e 4 cardinali. La sua morte pesava sulla nostra coscienza». E ancora: «Don Beretta faceva comodo a molti: innanzitutto alle autorità pubbliche, perché senza di lui ci sarebbe stata più criminalità. Dopo la sua morte qui in Svizzera c’è stato una specie di lutto nazionale, che però nasconde la nostra cattiva coscienza. Che questa morte non sia l‘inizio della fine del volontariato», si preoccupa padre Koch. «Ma lasciare la solidarietà per paura sarebbe un delitto contro migliaia di persone oneste in cerca d’aiuto».

Il pensiero è in linea con il testamento spirituale che don Renzo Beretta ha lasciato scritto: «Quello che ancora ho, non mi è mai appartenuto. Ho ricevuto tutto, tutto appartiene a chi è nel bisogno»

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