La pandemia a Como, tre anni dopo: «Quel sabato mattino un colpo di tosse
ci ha stravolti così»

Testimonianza Roberta Balducci e il dolore per il Covid. Il papà il primo contagiato, il marito tra i primi medici morti a causa del virus

Un sabato mattina come tanti, con il sole che splende e le persone a passeggio per strada. La pandemia entra nella vita di Roberta Balducci così. Un poeta avrebbe detto che in effetti il mondo finisce «non già con uno schianto, ma con un lamento» e quella mattina di fine febbraio l’unica nota stonata in una giornata altrimenti ordinaria è la stanchezza di Nino Balducci, il papà di Roberta. Passeggiano insieme quando lui inizia a lamentare i primi sintomi, la debolezza, un colpo di tosse, il raffreddore che si fa strada nel corpo: nessuno dei due sospetta nulla. Roberta pensa che sia tutto dovuto alla stanchezza data da una lunga settimana di lavoro: accompagna il papà a casa, lo mette a letto, gli asciuga il naso con amore e si alterna con le sorelle per tenergli compagnia. Così fino a lunedì mattina, quando le condizioni dell’uomo precipitano e occorre portarlo in pronto soccorso. È il 24 febbraio 2020, Nino ancora non lo sa ma è lui il primo comasco contagiato dal Covid.

«È stata dura anche perché mio padre era anziano, diabetico, iperteso e aveva subito un intervento per melanoma: insomma, stando a quello che si diceva in televisione era il perfetto candidato alla morte per Covid - racconta Roberta, tre anni dopo l’inizio dell’incubo -. Avevamo paura. Credo però che essere stato il primo contagiato in provincia sia stata la grande fortuna di mio papà perché gli hanno dedicato tantissime attenzioni, lo hanno ricoverato e tenuto sotto controllo per tutto il tempo... dopo di lui non hanno più ricoverato nessuno, nemmeno mio marito».

Qui la sua voce si spezza, il ricordo di quel flebile lamento del padre e di quella stanchezza apparentemente normale sono solo l’inizio, per Roberta e la sua famiglia, di una tragedia alla quale è impossibile arrivare preparati. L’anticamera di un inferno fatto di tosse e solitudine, abitato da un nemico invisibile. «Mio padre era stato dimesso da poco, volevamo festeggiare ma mio marito si è ammalato». Luigi Frusciante è il marito di Roberta ed è uno dei primi medici morti per Covid sul nostro territorio. Il primo contagiato e una delle prime vittime del virus sono per Roberta molto più che “primi casi”, sono volti amati e vita condivisa.

«A differenza di mio papà, mio marito non era malato - spiega - aveva avuto un tumore ma ne era uscito senza neppure fare chemioterapia, non ha avuto febbre alta e saturazione bassa come mio papà. Aveva un gran mal di gola, questo sì». Non c’è tregua per Roberta: a pochi giorni dal rientro del padre dall’ospedale, le condizioni di suo marito cambiano. E inizialmente sembra lo facciano in positivo: «Una sera mi disse che aveva fame e aggiunse “Credo di averla scampata”. Noi non eravamo certi fosse Covid, non c’erano tamponi per tutti e dall’Ats sentivano che i suoi sintomi non erano preoccupanti quindi non lo avevano giudicato un paziente grave. Perciò quando mi ha detto che aveva avuto paura di non farcela ho capito che dentro di sè sapeva di avere il Covid... ma stava meglio e quindi gli ho preparato il risotto».

Si tratta però di un vero e proprio canto del cigno. Passano poche ore e Luigi Frusciante inizia a stare sempre peggio: accusa forti dolori all’addome, guarda la moglie negli occhi e le confessa di sentirsi morire. Roberta, che non aveva mai fatto un’iniezione, segue le sue indicazioni e punta la siringa sulla sua pelle una, due, tre volte. «E intanto lui soffriva, soffriva veramente tanto - racconta con voce rotta dall’emozione nel richiamare alla mente i ricordi di tre anni fa - Non voleva che chiamassi l’ambulanza perché aveva paura di essere intubato». L’intubazione in quei giorni era vista da molti come l’anticamera della morte, ma Roberta non può fare altro che stringere la mano al marito e chiamare l’ambulanza, perché la sua sofferenza è troppo grande. Spaesata, lo guarda mentre viene caricato e portato via. Non lo rivedrà mai più.

«A volte mi chiedo se sia successo davvero... credo sia un sentimento comune a molte persone che come me hanno perso un caro per colpa del Covid in quei primi mesi. Da una parte il senso di irrealtà, perché non ho mai visto il suo corpo e abbiamo potuto celebrare il funerale solo sei mesi dopo, e dall’altra il senso di colpa». Roberta racconta di come suo marito sia morto così, sostanzialmente nel silenzio, senza una mano amica o il sostegno della famiglia. Il senso di colpa che prova è il lasciato di un dramma che ha toccato tanti comaschi tre anni fa. Ma la sofferenza per Roberta non era ancora finita: «Poco dopo mi sono ammalata anche io - racconta infatti -. Avevamo preso delle precauzioni in casa, anche se ancora non esistevano chiare indicazioni su come comportarsi. Io e Luigi dormivamo separati ma ho continuato a mangiare con lui fino a quando è stato portato via in ambulanza,.in ogni caso mi sono ammalata e sono stata ricoverata». Lontana anche dai due figli, Roberta vive il lutto del marito prigioniera di un’altra realtà. Una realtà che tanti pazienti ricoverati nel corso di quella prima ondata ricordano come un mondo parallelo, dove a prevalere sono la solitudine e la sofferenza e dove la realtà perde colore, come svanendo.

Il dolore di quei mesi può acquisire forma solo col tempo e, come racconta Roberta, anche grazie al sostegno psicologico offerto dall’ospedale Sant’Anna proprio a questi primi ricoverati. «Spesso penso che sarei dovuta andare a picchiare alla porta dell’ospedale e chiedere di vedere mio marito. Sono poi venuta a sapere che quando non ha più avuto dolore addominale voleva tornare a casa... magari se fossi stata lì l’avrei potuto portare via: sarebbe morto comunque, ma almeno sarebbe morto con me. Il Covid d’altra parte ha fatto questo: ha diviso le persone».

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