L’inno alla generosità del filosofo della scienza: «Donare se stessi ci rende migliori»

Marco Annoni Il volontariato fa bene soprattutto a chi lo fa: «Serve cooperazione tra le istituzioni e la parte solidaristica»

Il dono di sé trasforma il mondo e ci rende migliori. Non solo: che sia dono del proprio tempo, del proprio sangue o di valore, fa essere felici e ci fa vivere più a lungo. Questa la tesi alla base del saggio “La felicità è un dono. Perché l’altruismo intelligente è la scelta migliore che puoi fare” (Sonzogno). Autore è Marco Annoni, filosofo della scienza, bioeticista, ricercatore del Cnr e coordinatore del Comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi.

Praticare il volontariato, scrive Annoni, stimola l’ossitocina che incrementa il benessere fisico e psicologico riducendo lo stress, questo può spiegare perché quando agiamo da altruisti ci sentiamo meglio e siamo più calmi, e perché chi è altruista sembra avere una salute migliore a lungo termine rispetto alla media della popolazione. Inoltre, nell’ultimo terzo dell’esistenza, praticare volontariato aiuta a mantenere o ampliare la rete delle relazioni e a dare un significato alla vita, prevenendo l’isolamento sociale e il suo impatto negativo sulla salute. Ma c’è un altro importante aspetto su cui si sofferma Annoni e che viene sottolineato, nella prefazione, dal celebre filosofo della scienza Telmo Pievani: l’altruismo deve essere “intelligente”, né solo emotivo e istintuale, né sprecone e autoreferenziale.

Ma come fare per rendere l’altruismo davvero efficace? «Sono due i fattori: il primo è “conosci te stesso”, bisogna avere le idee chiare sulla scala delle priorità e sulla visione del mondo che si vuole far avanzare, se non abbiamo nessun obiettivo è difficile sapere quali cause sostenere. La seconda idea è che per fare del bene bisogna accertarsi di farlo per davvero, non solo per noi stessi o per la nostra soddisfazione emotiva e intellettuale, occorre controllare che le nostre azioni abbiano un reale impatto positivo per gli scopi che sosteniamo».

Educazione, cultura e fattori biologici «concorrono nelle decisioni finali, ma mentre sul fattore naturale, per così dire genetico, possiamo intervenire in maniera abbastanza indiretta e a tentativi, sul lato culturale, della promozione di esempi e della riflessione collettiva possiamo fare tantissimo. È perciò una nostra responsabilità pensare a come strutturare percorsi di educazione, la sfida principale è decidere come crescere le nuove generazioni». Per numerose realtà l’attenzione all’altro sembra essere più un’operazione tipo “green washing”, un “social washing” in questo caso. «C’è anche un egoismo intelligente: si fa il proprio bene innanzitutto e poi questo ha anche conseguenze positive per gli altri. La differenza è a livello di intenzioni, se guardiamo solo agli effetti, ben venga l’egoismo intelligente nel momento in cui fa avanzare il bene, però bisogna essere consapevoli di quali delle due forme si stia abitando. L’insincerità di fondo è problematica a livello morale. Il volontariato stesso può essere una forma mascherata di egoismo o di altruismo stupido che non fa bene né agli altri né a stessi, l’altruismo comporta una responsabilità e un’adeguata formazione, non è che perché si fa del bene allora va bene tutto».

Se le istituzioni funzionassero il volontariato non sarebbe così determinante. Ma quale modello di società si prefigura? «Rispondo con un esempio concreto: la donazione di sangue, un vero miracolo nel nostro Paese, il Servizio sanitario nazionale fa un lavoro egregio, ma questo sistema non esisterebbe senza i volontari, è un modello virtuoso che si basa sulla cooperazione tra istituzione pubblica e parte solidaristica».

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