Povertà, cultura e un maledetto braciere. La storia di Ali e della sua famiglia

Il racconto Ali e la sua famiglia hanno rischiato la vita a causa del monossido: «Fortunato a poterlo raccontare»

Il malessere, la paura, la chiamata d’urgenza ai soccorsi e poi, per fortuna, il sospiro di sollievo. Ali Rahman, 42enne originario della Costa d’Avorio, residente a Lurate Caccivio in una palazzina di via Pascoli, ha il tono di voce di chi si sente molto fortunato. Martedì 8 novembre lui e la sua famiglia, la moglie ghanese Ajara Abuu di 35 anni, e i figli 9, 4, 2 anni con la più piccola di appena 3 mesi, hanno rischiato la vita per un’intossicazione da monossido di carbonio, dovuta a un fuocherello di fortuna, acceso sul balcone per proteggersi dal freddo.

Un gesto apparentemente difficile da comprendere, dietro al quale, però, si celano tutte le difficoltà economiche e culturali di una famiglia abituata a lottare per garantirsi un futuro diverso da quello a che il fato aveva tratteggiato. Un destino che li ha più volte portati a lottare per sopravvivere, a partire dal viaggio affrontato dall’uomo per raggiungere l’Italia dalla Libia, durato una settimana e nel quale sono morte diverse persone, fino all’incidente di settimana scorsa.

«I bambini avevano freddo e mia moglie, non riuscendo ad accendere il riscaldamento, aveva riempito un grosso vaso di fiori con pezzi di legna per fare il fuoco»

«Quel giorno, dopo il lavoro, mi sono fermato a fare un po’ di spesa - racconta Rahman - Sono rientrato alle 19.30 e ho avvertito subito un forte odore di fumo. I bambini avevano freddo e mia moglie, non riuscendo ad accendere il riscaldamento, aveva riempito un grosso vaso di fiori con pezzi di legna per fare il fuoco. Gliel’ho fatto spegnere subito, ma ormai era acceso da un paio d’ore. Io sono qui dal 2004, ma lei mi ha raggiunto solo nel 2017. In Africa è normale scaldarsi in questo modo. Non sapeva che qui non fosse possibile e che, oltretutto, potesse rappresentare un rischio. Me ne assumo la responsabilità: avrei dovuto spiegarglielo». Gli effetti di quell’errore umano, dettato dall’amore di una madre per i propri figli, hanno iniziato a palesarsi verso sera, quando, uno dopo l’altro, i membri della famiglia hanno iniziato ad avvertire una serie di malesseri. «Erano le 22 e stavamo per andare a letto - prosegue Rahman - Mia moglie lamentava mal di testa e anche mia figlia più grande diceva di non sentirsi bene. Spesso fa qualche capriccio, quindi non ci abbiamo dato molto peso. Pochi minuti dopo, però, sia lei e che i suoi fratelli hanno iniziato ad avvertire dolori alla pancia. Ajara si è alzata per andare da loro ma, ben presto, ha dovuto sedersi in preda a forti giramenti di testa. Ho capito che qualcosa non andava e ho chiamato i soccorsi».

I soccorritori, forse anche grazie all’odore di fumo ancora presente nell’aria, ci hanno messo ben poco a capire l’origine del problema. Colpa del monossido di carbonio, gas incolore e inodore, sprigionato dal braciere. Un killer silenzioso che, lentamente, si era infiltrato nei polmoni dei componenti della famiglia. Tutti e sei, compreso Rahman, che ha iniziato ad avvertire i sintomi dell’intossicazione qualche minuto più tardi, hanno avuto bisogno di cure immediate. Dopo aver dato loro l’ossigeno, i volontari li hanno trasportati in ospedale, metà a Varese e metà al Sant’Anna, dove hanno ricevuto le cure necessarie. Nessuno è mai risultato in pericolo di vita, ma questo grazie soprattutto alla tempestiva chiamata al 118. Nell’arco della giornata di mercoledì sono stati tutti dimessi e hanno potuto fare ritorno a casa, ma i medici del pronto soccorso hanno continuato a monitorarli nei giorni successivi attraverso visite di controllo.

«I pulsanti per accendere il riscaldamento non sono in alto. Mio figlio, talvolta, schiacciava i tasti per gioco e lo accendeva. Per evitare che succedesse, visto i costi, ho tolto le batterie»

Una storia a lieto fine, dietro la quale, però, si nasconde il giallo dell’impianto di riscaldamento, che le forze dell’ordine giunte sul posto hanno verificato essere perfettamente installato. Un intrigo che trova la sua soluzione nel racconto del padre di famiglia. «I pulsanti per accenderlo non sono particolarmente in alto - spiega - Mio figlio, talvolta, schiacciava i tasti per gioco e lo accendeva inutilmente. Per evitare che succedesse, visto i costi, ho tolto le batterie, deciso a rimetterle solo quando ne avremmo avuto bisogno». Le temperature sopra la media a cavallo tra fine ottobre e inizio novembre, sommate all’aumento dei costi del gas, difficilmente sostenibili per una famiglia di sei persone con un unico stipendio, hanno fatto sì che il momento dell’accensione fosse prorogato fino ai giorni scorsi.

Difficoltà economiche

«Ho aspettato il più possibile, anche per risparmiare qualche soldo - ammette Rahman - Dopo l’incidente, però, ho reinserito immediatamente le batterie. Mi sento in colpa per quanto è successo». Poi una considerazione: «A volte è dura, per noi. Ajara non lavora, abbiamo quattro figli di cui l’ultima molto piccola, quindi dobbiamo fare qualche sacrificio. Ogni tanto veniamo aiutati dalla Croce Rossa con pacchi alimentari, ma facciamo il possibile per badare a noi stessi». Forte dello scampato pericolo, l’ultimo pensiero va a chi, come lui, ha affrontato il mare per cercare una vita migliore e che, ancora oggi, combatte per inserirsi al meglio in una società profondamente diversa da quella d’origine. «Mi sento fortunato a poter raccontare l’accaduto. Ci tengo a dare due consigli agli altri immigrati. Primo: imparate la lingua e le usanze del posto. Tutti gli insegnamenti, poi, vanno trasmessi al resto della famiglia. Mia moglie non parla italiano e non sa ancora bene le regole che ci sono qui. Le avessi spiegato come comportarsi, non avremmo rischiato la vita».

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