Nell’età del cambiamento vince chi si adatta prima. Intervista a Paolo Pozzi, Ceo di Agrati

Paolo Pozzi, Ceo di Agrati, analizza i fattori di crisi e il livello di resilienza dimostrato dalla manifattura lombarda. «Automotive, tempi definiti e rotta segnata. Ci sarà ricaduta sulla componentistica, ma ho fiducia nelle nostre Pmi»

Emergenza energetica, Covid, guerra, digitalizzazione e lavoro sono i fattori e l e crisi in rapida successione che stanno cambiando l’economia. Eppure le aziende del manifatturiero sanno reagire: è la considerazione di Paolo Pozzi, Ceo di Agrati, presente a Cernobbio in occasione del Workshop “Lo Scenario dell’Economia e della Finanza” organizzato da The European House – Ambrosetti a Villa d’Este.

Come si spiega questa concomitanza tra crisi e tenuta del sistema industriale?

Condivido l’analisi emersa nel Workshop che valuta positivamente la capacità delle imprese di reagire alle difficoltà e di cogliere le opportunità che si presentano anche se la visibilità delle prospettive future è ridotta.

Molto dipende dal settore manifatturiero a cui ci riferiamo. Negli ultimi due anni l’industria generica ha avuto un recupero più lento dal periodo segnato dal Covid rispetto a chi per esempio, come noi, lavora nell’automotive che invece ha avuto un rimbalzo importante a partire già da giugno 2020 con volumi analoghi al periodo pre crisi per quasi un anno. Una ripresa che poi si è smorzata quando c’è stata la crisi globale dei semiconduttori e poi la guerra in Europa.

A questo si aggiunge la data del 2035 che segna la fine dei motori diesel e benzina nell’Ue: quale impatto avrà la rivoluzione green sulla filiera dell’auto?

La scadenza era nota. È chiaro che la componentistica subisce un impatto: forse questa scelta poteva essere fatta in modi e tempi diversi, ma nessuno può seriamente immaginare che la data potesse essere spostata o sospesa, considerati gli investimenti già stabiliti delle case automobilistiche, né è immaginabile che si mantengano due infrastrutture diverse e parallele.

Eppure la decisione è stata edulcorata con l’apertura ai carburanti sintetici, cosa significherà in termini concreti?

Sì, c’è stata questa concessione sui cosiddetti eFuel all’interno delle diverse soluzioni tecnologiche e probabilmente resterà qualche proprietario di auto sportive che potrà permettersi un pieno di carburante che diventerà in futuro molto costoso. Ma è evidente che le case automobilistiche non svilupperanno due infrastrutture in contemporanea: ovvero mantenere la rete per la distribuzione necessaria ai motori a combustione e comunque sviluppare anche la rete per le auto elettriche.

La scelta è stata fatta, i tempi sono stati definiti e le aziende si sono adeguate. Hanno deciso i loro investimenti ed è chiaro che non possono più cambiare rotta dopo quattro o cinque anni.

Condivide questa scelta per l’industria dell’automotive?

Non completamente, non è detto neanche che l’opzione per il motore elettrico sia la più ecologica possibile e in assoluto, né che il settore auto sia il più inquinante in termini di CO2. Ugualmente la proposta della Commissione europea ha svolto il suo iter piuttosto lungo, ma sono i tempi della politica, e ora si tratta di prenderne atto.

Saranno soprattutto le pmi a essere messe in difficoltà da questo cambiamento?

Credo che proprio le aziende del distretto lombardo della meccanica siano capaci sempre di cambiare e che lo stiano già facendo. Gli imprenditori, qualunque sia la dimensione della loro azienda, non aspettano. Quando capiscono che le condizioni del mercato sono in via di trasformazione si adeguano e fanno le scelte necessarie per prepararsi ai mutamenti che riconoscono.

La sintesi è che, nonostante tutti i segnali di crisi, anche in prospettiva, l’industria italiana resta solida: non è una scommessa troppo ottimistica?

Confermo che in questo momento non abbiamo un problema di volumi degli ordini, anzi. Il vero e grave problema come azienda oggi è quello della manodopera, della sua mancanza. Questo accade per una serie complessa di motivi: perché l’evoluzione dell’economia degli ultimi due anni è stata importante, perché ci sono stati incentivi dovuti al Covid, in Europa e negli Usa, perché i bonus edilizi hanno spinto un settore, quello delle costruzioni, che traina una filiera enorme e quindi una serie di altre aziende hanno beneficiato del recupero dopo la pandemia. Dalla metà dei 2021 in poi infatti per la grande maggioranza delle imprese ci sono stati ottimi risultati di fatturato e anche la partenza di quest’anno, al netto di qualche correzione, registra un livello di attività più che buono.

Crescono gli ordini, cresce il lavoro ma i lavoratori diminuiscono: quali sono le possibili cause del fenomeno?

Il problema italiano è anche legato alla bassa natalità e alla crisi demografica, tra le più gravi a livello globale, ma il tema del lavoro è sentito anche altrove con modalità diverse, soprattutto in Francia e negli Stati Uniti dove il livello di mancanza di manodopera è drammatico.

Non è invece considerato un problema in Cina, per ora.

In America il mercato del lavoro è da sempre molto più dinamico rispetto a quello europeo. Le persone sono abituate a cambiare lavoro e a muoversi con più facilità, cosa che non accade in Italia anche se il turnover è raddoppiato dopo il periodo Covid, ma significa essere passati dal 2% al 4%. Nulla di paragonabile agli Stati Uniti dove si è saliti al 30%. Significa che in tre anni si cambia tutto il personale dell’azienda.

Questo è necessariamente un problema?

Sì, perché non avere un’organizzazione stabile significa dover gestire una serie di compensazioni alle quali provvedere in termini di efficienza, qualità e livello di servizio.

Quali possono essere le soluzioni?

Si tratta di fenomeni che avvengono nel tempo per una serie complessa di ragioni, ma quando scoppiano sono difficilmente arginabili. È il caso del trend demografico che non è semplice cambiare ed è uno dei fattori più rilevanti per l’Italia e l’Europa.

Però il problema c’è anche negli Usa che fino a poco tempo fa hanno gestito i flussi migratori con una certa capacità, ma negli ultimi 3 o 4 anni questa politica ha subito uno stop prima per le politiche del presidente Trump, poi per il Covid e la diminuzione di flussi, unita al mercato del lavoro dinamico, ai sussidi per la pandemia, allo smart working e all’approccio al lavoro delle nuove generazioni ha combinato una serie di elementi che hanno messo in crisi il mercato delle risorse umane.

Oggi uno dei tempi più rilevanti per le aziende a livello internazionale è attrarre e trattenere i talenti.

La digitalizzazione e il ricorso alla robotica possono costituire una risposta?

In parte, perché si genera l’esigenza di competenze nuove che si sommano alle altre. In ogni caso è una delle trasformazioni in atto insieme alle tante che accadono. Negli ultimi 5 anni abbiamo visto più rivoluzioni epocali che nei 50 precedenti: l’elettrificazione delle auto, la digitalizzazione e il cambiamento di approccio al lavoro si uniscono al tema della sostenibilità che non è banale, a una fortissima volatilità e al ritorno della guerra in Europa, mentre avevamo creduto di aver eliminato dal nostro continente questo rischio.

Infine il tema dell’energia è ridimensionato ma non risolto. Non è vero che gli aumenti sono da addebitare esclusivamente alla speculazione, anche se c’è stata e con un effetto importante soprattutto nel terzo trimestre. Ma resta un oggettivo problema di offerta di energia nel mondo.

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