Debitore della ’ndrangheta a sua insaputa. «Mi hanno minacciato di morte. Alla fine ho abbandonato tutto»

Il processo Imprenditore costretto a fare la colletta in famiglia per pagare la famiglia Ficarra. «Un giorno hanno detto che erano stanchi di aspettare i soldi e che ci avrebbero sparato»

«Com’è finita? Che ho mollato tutto. Ho abbandonato il lavoro che facevo. E non ne ho più voluto sapere». Deluso, certo. Amareggiato, di sicuro. Sfiduciato, senz’ombra di dubbio. Ma per nulla intimorito. Così, ieri mattina, nel corso del processo a carico dei presunti componenti della ’ndrangheta capitanati dalla famiglia Ficarra, si è presentato in aula l’imprenditore che ormai dieci anni fa fu vittima di un’estorsione da 90mila euro per un debito che lui aveva nei confronti di una ditta di Vertemate, finita sotto estorsione da affiliati della criminalità calabrese. E nella logica perversa della malavita se tu hai debito con una ditta che mi deve dei soldi, allora hai un debito con me.

A mettere pressione, e paura, sull’ex imprenditore e sul suo socio è stato, tra gli altri, Domenico Ficarra. «Mimmo, in uno dei primi incontri, ricordo che mi disse “sei un uomo di m..”. E poi: “Tu devi tirarli fuori questi soldi”. Se mi sono intimorito? Certo che sì. Non erano i classici impiegati di recupero credito, ma persone dallo spiccato accento calabrese che ti minacciano, alzano la voce e poi ti dicono “ci mettiamo d’accordo”».

La minaccia del presunto boss: «Ora vado in macchina, prendo la pistola nel cassettino, e ammazzo qualcuno»

Per settimane lo sventurato imprenditore, che aveva sì un debito con la società di Vertemate ma non certo con la famiglia Ficarra, ha continuato a ricevere richieste pressanti, telefonate. «Un giorno ricordo che ci hanno convocati fuori dalla stazione centrale di Milano - ha riferito nella sua testimonianza - C’erano i Ficarra, sia Domenico che Daniele. A un certo punto Daniele dice: “Ora vado in macchina, prendo la pistola nel cassettino, e ammazzo qualcuno”. Ricordo che il mio socio si è sentito male». Al rientro a casa la decisione: «Ho chiamato i miei famigliari e ho fatto una colletta tra loro e i miei amici, per poterli pagare. Ho raccolto 90mila euro e glieli ho dati».

Oltre il danno, la beffa. Duplice. La prima, quando Marcello Ficarra si presenta all’imprenditore e gli dice: «Ma come hai fatto a metterti in questa situazione?». Chiosa, desolato, l’imprenditore, parlando ai giudici di Como: «Mettermi in questa situazione... io?». La seconda: «Anni dopo sono finito pure in Tribunale con la società di Vertemate che mi chiedeva i soldi per quel debito». Perché, ovviamente, quel denaro è finito nelle tasche di chi ha minacciato, terrorizzato, spaventato.

«Dopo aver raccolto i 90mila euro, sono andato dal mio socio e gli ho mollato le chiavi del capannone - è la conclusione amara - Non ho più voluto saperne nulla. Ero stufo, dopo quello che mi era successo». Il processo prosegue. La sfilata dei testimoni, soprattutto delle vittime, continua nelle prossime settimane.

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