Caccia al gas africano quanti rischi per noi

Il discorso di Mario Draghi al Parlamento europeo di inizio maggio ha, finalmente, rimesso al centro della politica estera due priorità geopolitiche fondamentali: i Balcani e l’area “Mena” (Middle East-North Africa), regioni chiave per la nostra proiezione oltre le acque dell’Adriatico e del Mediterraneo. Proporre l’Italia come ponte tra Europa e Africa e affidarle il ruolo di perno strategico dell’Unione europea verso sud è stata, a dire il vero, una costante fin dal secondo dopoguerra: mai come ora, tuttavia, con il fronte orientale nostro malgrado sempre più instabile e con la pressione migratoria africana in drammatica crescita nei prossimi decenni, guardare verso meridione è stato così importante.

Sebbene le parole di Draghi a Strasburgo si riferissero, almeno formalmente, al Sahel come confine ultimo della geografia di interesse italiano - quella del cosiddetto Mediterraneo allargato - appare evidente la necessità, scaturita dal conflitto russo-ucraino, di volgere lo sguardo ancora un po’ più a Sud, fino a quell’Africa australe che poco conosciamo e di cui poco sentiamo parlare. Una regione remota, riesumata dai planisferi della Farnesina per incrementare, insieme all’offerta di paesi come Libia, Algeria, Egitto e Nigeria, l’afflusso di gas verso l’Italia alla luce della riduzione delle forniture dalla Russia.

I numeri

I dati della Commissione per l’energia africana giustificano appieno la rinvigorita attenzione verso questo gigantesco continente: il sottosuolo africano detiene circa l’8% delle riserve mondiali di gas naturale, pari a poco meno di 15mila miliardi di metri cubi e sufficienti a soddisfare una domanda di 125 miliardi di barili ogni anno. Per di più, la produzione di gas - stimata oggi a 1,3 milioni di barili al giorno (boepd: Barrels of oil equivalent per day) - nel 2035 aumenterà del 55%, rendendo l’Africa un centro di produzione di assoluta rilevanza.

Prima dell’inverno

Nel breve periodo, diversificare l’approvvigionamento e stoccare quanto più gas possibile prima dell’inverno è un imperativo inevitabile: non vorremmo mai trovarci, a inizio autunno, nella scomoda situazione di non essere in grado di soddisfare la domanda interna per via di depositi non riempiti a sufficienza. Sarebbe tragico, non solo per le famiglie, ma per un tessuto produttivo - fortemente energivoro e orientato all’export - già sotto stress per le distorsioni nelle catene del valore globali causate dalla pandemia e dai suoi strascichi (vedasi Cina). Ciononostante, la sostituzione del gas russo, che diventerà nei prossimi due anni una realtà sempre più consolidata, impone delle riflessioni di lungo periodo sulla sicurezza energetica europea ed italiana che molto si intrinsecano con dinamiche geopolitiche mutevoli, oltre che con difficoltà infrastrutturali notevoli. Ciò anche alla luce della recente decisione della Commissione europea di rendere più morbida e graduale la transizione verso fonti green attraverso l’inclusione di gas naturale e nucleare da fissione nella tassonomia: in attesa delle rinnovabili - verso cui naturalmente si tenderà - pensare al gas è dunque prioritario.

Rimpiazzare le forniture del Cremlino con un maggiore afflusso dall’Africa ci esporrà inevitabilmente a regioni endemicamente instabili, con ulteriori fattori di rischio. A cominciare, per prossimità alle coste italiane, dalla Libia, dove è in corso da mesi un braccio di ferro tra il Primo Ministro uscente del Governo di Tripoli - Abdulhamid Dabaiba - e il premier designato dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk e sostenuto dal generale Haftar, Fathi Bashagha. In un paese dilaniato dalle rivalità tribali e regionali, si è presto capito che le elezioni promosse dalle Nazioni Unite l’anno scorso sarebbero naufragate, condannando la Libia a chissà quanti anni ancora di instabilità e incertezza politica. Proseguendo verso sud - tralasciando i burrascosi rapporti con l’Egitto e le delicate relazioni con l’Algeria in merito all’annosa questione del Sahara occidentale - incontriamo un’Angola sì pacificata ma ancora visibilmente scossa dagli strascichi della lunghissima guerra civile che la immobilizzò dal 1975 al 2002: in agosto, il presidente uscente João Lourenço cercherà di garantirsi un secondo mandato alla guida del Paese e del Movimento Popolare di Liberazione, nonostante gli anni di recessione e di crescente malcontento.

Nella regione australe, nemmeno il Mozambico può dirsi al riparo da elementi destabilizzanti come l’imperversare del terrorismo islamista nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, dove il gruppo Al Shabab ha a lungo razziato e devastato il capoluogo Palma e gli agglomerati circostanti. A ben vedere, l’azione dei gruppi fondamentalisti è una costante che interessa la maggior parte dei paesi africani ricchi di risorse energetiche e materie prime, minando sicurezza e stabilità politico-sociale.

Un ulteriore fattore di rischio, soprattutto per gli approvvigionamenti dall’Africa del sud, è rappresentato da carenze infrastrutturali che renderanno, rispetto ai molto competitivi gasdotti, più costoso e lento trasportare gas verso l’Europa. Paesi come Angola e Mozambico necessitano di ingenti investimenti per costruire nuovi impianti che siano in grado di trasformare l’Lng, per poi inviarlo - con possibili strozzature derivate dalla mancanza di navi cargo - a paesi dell’Ue anch’essi impegnati nella costruzione di rigassificatori.

Numerosi gli ostacoli regolatori, oltre alla lentezza decisionale e alla mancanza di capitali adeguati: si pensi che, dopo più di vent’anni di pour parler, Niger, Algeria e Nigeria hanno siglato solamente all’inizio di quest’anno l’accordo formale che permetterà di costruire la “Trans-Saharan Gas Pipeline”, lunga 4.000 chilometri e quotata a 13 miliardi di dollari. Allo stesso modo, nel corso del 2022 dovrebbe ripartire il progetto infrastrutturale da oltre 20 miliardi promosso da TotalEnergies nel nord del Mozambico, interrotto proprio a causa dei feroci attacchi dei fondamentalisti prima ricordati. La strada per adeguare le dotazioni esistenti alle nuove esigenze di mercato e costruirne di nuove è, dunque, in salita.

Il cambiamento possibile

Non c’è dubbio che l’energia africana possa essere, sia per l’Europa che per l’Africa stessa, un “game changer” di portata eccezionale. Se, per i paesi europei, la sfida principale sarà coniugare gli investimenti in gas naturale oltre il Mediterraneo con i ritmi serrati della transizione alle rinnovabili dettati dal “Green New Deal”, i governi africani dovranno creare condizioni favorevoli ad un maggiore afflusso di capitali, utilizzando poi i proventi derivanti dalla vendita di risorse per ridurre le disuguaglianze al proprio interno. Il tutto per evitare che il gas risulti - per entrambi i continenti - la pietra angolare di una nuova maledizione delle risorse: il futuro, del resto, è rinnovabile.

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