I migranti e l’Italia, un calo di interesse

Il tema Se ne è parlato di meno in campagna elettorale non solo perché sarebbe normale arrivare a gestire serenamente i pro e i contro del fenomeno Il vero problema è che non siamo più attrattivi

Rispetto alle ultime scadenze elettorali, il tema dell’immigrazione ha giocato un ruolo modesto nel dibattito politico che ci ha condotti all’appuntamento delle urne. Spesso usato in passato come facile strumento per ottenere voti (sia da chi avversa il fenomeno, sia da chi invece lo guarda con favore), oggi sembra finito ai margini della discussione.

Oltre a ciò, è probabile che l’opinione pubblica sia oggi meno polarizzata che in passato, poiché molti ritengono che le persone che giungono dall’Asia, dall’America latina e dall’Africa comportino conseguenze sia positive, sia negative. È legittimo ritenere, insomma, che un numero crescente di nostri concittadini guardi all’immigrazione con la consapevolezza che non sempre è facile comprendere se in essa prevalgano i problemi o le opportunità.

Una cosa comunque è evidente: tanto più è presente il welfare State, quanto più è facile che l’immigrazione crei tensioni. Se lo Stato offre a tutti e gratuitamente scuole, case, assistenza e sanità, il nuovo arrivato può essere visto come un soggetto parassitario. Se invece questi aiuti non ci sono, egli deve lavorare e quindi si mette al servizio delle domande provenienti dalla società. La storia americana è lì a mostrare che gli irlandesi, i polacchi e gli italiani che arrivavano a Ellis Island a fine Ottocento non andavano a gravare sulle spalle dei cittadini americani. Non trovando “assegni di cittadinanza” e alloggi popolari, il loro integrarsi nella società statunitense passava attraverso l’impegno fattivo e la capacità di contribuire al bene della comunità.

Assistenzialismo

Con la creazione di uno Stato sociale costoso per i contribuenti e generosissimo per i destinatari degli aiuti, l’immigrazione ha rappresentato anche una scelta opportunistica: tanto più che molti hanno costruito una sorta di “industria” dell’assistenzialismo che aveva e ha bisogno di masse di diseredati. Questa immigrazione ha suscitato reazioni più che legittime, perché è facile comprendere la frustrazione di chi contribuisce da una vita a una serie di servizi comuni e poi vede che i propri figli sono scavalcati in graduatoria da persone giunte da lontano.

Il Pil di Milano e i cinesi

L’immigrazione, però, è anche molto altro. Non va trascurato che uno straniero non può entrare nella funzione pubblica e quindi, in linea di massima, si colloca nel settore privato. E infatti in tante realtà italiane abbiamo un gran numero di imprenditori provenienti da altri continenti. Ovviamente ogni realtà fa a sé, ma in una città come Milano, ad esempio, è enorme il contributo in termini di Pil e qualità dei servizi che viene quotidianamente reso da una miriade di piccole anche minuscole società di proprietà di cinesi.

Per giunta, chi segue l’andamento della demografia deve constatare che il nostro spopolamento sarebbe ancora più grave se non vi fossero i nuovi nati da famiglie africane, tailandesi oppure peruviane. E avere nuovi bambini è fondamentale non soltanto, come spesso si sottolinea, per difendere i conti del nostro sistema previdenziale.

C’è allora immigrazione e immigrazione. C’è chi viene da noi ben disposto a rispettare le regole della vita civile e ad avviare attività che ci offrano beni e servizi, e chi invece capisce che gli Stati moderni sono in grado di moltiplicare aiuti e sussidi di varia natura, che essi possono ricevere. In fondo, in Italia il distacco dei ceti popolari dai partiti di sinistra viene in larga misura dal fatto che non si può difendere al tempo stesso welfare e immigrazione senza regole.

Oltre a queste considerazioni, naturalmente, ci sono poi le implicazioni culturali. Quando gli Stati Uniti fissavano le “quote” per i vari Paesi, alla base di quella strategia c’erano probabilmente tante ragioni, e non tutte nobili. Eppure si può realisticamente ritenere che vi fosse pure la consapevolezza del fatto che un massiccio arrivo di persone estranee ai principi tradizionali di quella comunità potesse causare molte difficoltà.

In effetti, in ogni società le regole emergono dalle interazioni sociali e, di conseguenza, sono strettamente legate ai valori vissuti e alla cultura diffusa. In una società troppo disomogenea, allora, non è facile capirsi e trovare la giusta maniera d’intendersi. Ed è esattamente per questo motivo che in talune realtà europee sono apparse “no go zone”: veri e propri ghetti in cui un pezzo di territorio tradizionalmente svedese o danese è sottratto dagli immigrati alla condivisione delle altre persone.

Dovrebbe comunque essere abbastanza chiaro che il tema dei migranti è destinato a essere meno d’attualità negli anni a venire. Che si sia favorevoli o contrari all’immigrazione di massa, è evidente che noi siamo sempre meno attrattivi; e poiché si emigra verso un’economia ricca che offre opportunità, e non già verso una povera che ostacola ogni intrapresa e quindi offre salari da fame, è difficile pensare che i grandi flussi punteranno sull’Italia.

Le cifre parlano: nel 2010 sono arrivate da noi circa 600 mila persone, mentre nel 2019 la cifra è scesa a 180 mila. Al contrario, nel 2010 gli italiani che uscirono dalle nostre frontiere furono 40 mila, mentre sono stati tre volte di più nel 2018. Se entrambe le tendenze si rafforzeranno negli anni a venire, l’Italia tornerà a essere un Paese di emigranti, e non già un Paese verso cui si emigra.

In fondo, riflettere sull’immigrazione obbliga anche ad esaminare la catastrofe italiana e le sue radici.

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