Il giardino segreto del lago di Como

Uno dei racconti d’autore che trovate nel numero de L’Ordine di metà agosto

«Nonna, nonna, raccontami ancora quella storia».
L’anziana signora sospira, nella calura di agosto, e ammira lo specchio scuro del lago di Como.

«Tesoro, l’avrai sentita mille volte...»

«Però rimane la mia storia preferita».

La signora prende la mano di sua nipote.

«Questa è una storia del tempo che fu, un tempo di guerra, che ti auguro di non vedere mai da vicino. Parla di un amore, reso eterno grazie a un giardino segreto…»

«Quello dove siamo state io e te?» incalza la bambina

«Proprio quello»

Sofia non sapeva nulla dell’amore. A sedici anni, in tempi di guerra, già stare lontani dai guai era un privilegio. Però lo sognava, l’amore, ce l’aveva sempre in testa, si ripeteva che un giorno sarebbe arrivato anche per lei e le avrebbe fatto così bene che si sarebbe sentita piena e appagata.
Non aveva idea che quel giorno era arrivato. Quando si addentrò nella radura, appena sopra Musso, dove abitava con la famiglia, il suo unico scopo era quello di versare lacrime e singhiozzi senza essere vista da nessuno. Aveva avuto l’ennesima discussione con suo padre, che le proibiva di andare a qualsiasi ballo di paese, che le diceva di rimanere a casa e smetterla di fare la poco di buono. Lei, però, non aveva nessuna colpa se amava il ballo e la musica e le sue amiche erano libere di andare alla balera tutte le volte che volevano.
«Quelle non sanno ciò che fanno», aveva detto Giovanni, puntandole il dito contro «pensi davvero che non passerà qualche partigiano a chiedervi di aiutare nella loro causa? Invece di rimanere fedeli alla patria, in questo difficile momento».
La madre non diceva nulla: lo zio di Sofia, Francesco, era passato dalla parte dei partigiani e si nascondeva sulle montagne ormai da mesi. Giovanni era convinto che pure sua moglie nascondesse qualcosa. Ogni giorno era irascibile, attento a ogni parola, ogni mossa.
Sofia aveva litigato con lui perché quella sera non sarebbe potuta andare al consueto falò di mezza estate. Papà non era d’accordo e non avrebbe cambiato idea. Quando era uscita di casa sbattendo la porta, Giovanni le aveva urlato dietro.
«Dove corri! C’è il coprifuoco!»
Che se ne andassero al diavolo tutti: la guerra, il coprifuoco, le feste con i falò e il papà.
Si addentrò nel suo luogo preferito, oltrepassata la chiesetta, su per il sentiero, all’interno di una vegetazione fitta e a tratti scoscesa.
Si sedette su un masso e lasciò che il suo corpo in piena adolescenza sfogasse tutto il risentimento. Quando udì un rumore di foglie, dietro di lei, si pietrificò.
Non ebbe il coraggio di voltarsi. Chiuse gli occhi, mentre avvertì i passi che si avvicinavano.
«Ti prego non uccidermi», disse a bassa voce.
«Italiana?» chiese una voce giovane di ragazzo.
Sofia annuì e scoppiò a piangere per la seconda volta.
Il giovane si mise davanti a lei.
«Ehi, va tutto bene», le disse «tanto anche se fossi stata tedesca non avrei saputo ucciderti comunque».
Doveva avere circa la sua età. Non indossava nessuna divisa, ma abiti stracciati e consunti e un paio di sandali non adatti alla montagna. Aveva i piedi pieni di croste e uno zaino in spalla.
«Come ti chiami?», chiese lui.
Gli occhi erano quelli di un cerbiatto.
«Sofia. E tu?»
«Puoi chiamarmi Elia».
«Mi hai spaventato a morte, Elia», replicò lei, ritrovando sicurezza in se stessa.
«Scusa, tu mi hai sorpreso nel mio nascondiglio»
«Ah, questo posto sarebbe tuo?»
Elia abbassò gli occhi.
«Da quando i tedeschi hanno dato fuoco alla mia casa e portato via i miei, non lo so più qual è il mio posto».
«Sei in viaggio da molto? Da dove arrivi?»
«Francia».
«E dove sei diretto?»
Sofia aveva notato l’accento francese, ma era ipnotizzata dagli occhi di lui, che la guardavano intensamente. “In un modo in cui nessuno”.
«Svizzera. Ho un indirizzo. Me l’ha dato mio padre prima che fosse portato via».
Silenzio. Solo un merlo testardo canticchiava ancora, inconsapevole che fosse giunta la sera.
«Sai dove ci troviamo qui, vero?»
«Lontano dalla Svizzera?»
«No», fece Sofia «e se ti fidi di me, posso anche provare ad aiutarti. Ti indicherò il sentiero dei partigiani, dove troverai mio zio. Lui combatte dalla parte giusta».
Sofia aveva parlato di fretta e con orgoglio. Non aveva il minimo dubbio di quale fosse la parte giusta. Forse era anche per andare contro al suo papà.
«Hai fame?»
Elia annuì. Si sedette sul masso.
«Sono anche molto stanco».
«Non fa freddissimo, riuscirai a dormire qui?»
Lui sorrise.
«Certo, ho dormito in posti ben peggiori da quando sono partito. Un tetto di stelle è proprio quello che mi serve».
«Allora domani ti porterò delle uova e latte appena munto. Se mi aspetterai».
Lui tornò a fissarla.
«Perché dovresti farlo?»
La diffidenza, in quei duri tempi, era di casa.
Sofia arrossì.
«Perché mi va», rispose, sinceramente.
Vide che lui tentennava ancora.
«Ti ho detto che ti aiuterò», insistette lei «vuoi provare a fidarti?»
«Vedi, se io mi fido e poi tu mi freghi... Per me significa morte. Per te cosa significa?»
Sofia sospirò.
Si staccò dal collo la collanina del battesimo.
«È l’unica cosa preziosa che possiedo», gli disse «adesso siamo in due a doverci fidare».
Si sentì nuda, senza quella collana. Ma vide che lo sguardo di Elia era cambiato. La stava rispettando.
«A domani, Sofia».
Mentre scendeva lungo il sentiero che l’avrebbe riportata a casa, Sofia sentiva il cuore suonare la grancassa. Elia era il primo ragazzo che incontrava e che le piaceva davvero. E stava rischiando di morire.
La mattina dopo Sofia riuscì a convincere la madre che era assolutamente necessario che lei andasse a raccogliere mirtilli, e prima passò dalle galline. Prese due uova e il latte, come promesso. Aveva nascosto anche un tozzo di pane rubato dalla dispensa.
Quando arrivò nella radura, dopo aver passato la chiesetta di San Biagio ed essersi fatta il segno della croce, notò con delusione che lui non era più lì. La vegetazione era incolta e molto fitta, le piante di baobab non se n’erano più andate da lì e nessuno degli abitanti di Musso aveva avuto la voglia di tagliarle. Pensò che si fosse nascosto nella macchia verde e iniziò a cercare. Ma con grande sgomento dovette constatare che Elia se n’era andato, portandosi con sé la collanina del battesimo che tanto le era cara.

«Questa è la parte che preferisco», ridacchia la bambina.
Mentre la nonna racconta, sono arrivate al Giardino del Merlo, dove un tempo sorgeva il castello del Medeghino, di cui ora rimangono solo le rovine.

La nonna aveva insegnato la strada alla bambina, che con manine esperte cerca la porta del giardino segreto.

«Eccola!», urla «dai, nonna, finiamo la storia qui dentro!»

Sofia stava per piangere ancora, quando dal fitto fogliame sentì:
«Psst. Per di qua».
Riconobbe subito la voce. Era lui.
Si avvicinò e lui da dietro una pianta le prese la mano. Era il loro primo contatto. Lei gli buttò le braccia al collo, in un gesto avventato.
«Sei rimasto!»
Elia le mise nelle mani la collanina.
«Non potevo andarmene senza aver assaggiato le uova».
Lei gliele porse.
Si guardarono ancora. Lui bevve il latte e mangiò con avidità, succhiando l’uovo fino a che non rimase il guscio leggero.
«Devo mostrarti una cosa che ho trovato».
La condusse lungo un sentiero che si affacciava sul lago, dove lei non era mai stata e la fece entrare in una grotta.
Sofia non aveva paura. Si fidava di lui.
«Guarda», le disse, tastando il vecchio muro di cinta ricoperto di edera «qui, guarda cosa ho trovato»
Una porta.
Sofia sgranò gli occhi.
«Non ci posso credere», esclamò «questa deve essere la casa del guardiano. C’era qualcuno che se ne occupava, prima, me lo ricordo da piccolina...»
Elia la trascinò all’interno di quello che era un giardino curato e ricco di piante che sembravano esotiche, e la baciò.
Sofia sentì le sue labbra e una sorta di bruciore, simile a un formicolio piccante, sulla bocca.
«Ma...», mormorò.
«Qui potrò rifugiarmi per un bel po’. Non c’è nessuno. E se arriva il proprietario, posso sempre passare dalla porta segreta»
Sofia gli prese la mano.
«Ti aiuterò», promise «purché tu non smetta di volermi bene. E di baciarmi»
Fu in quel giardino che Sofia divenne donna.
Fu in quei giorni di guerra che sperimentò la felicità più pura, quella che non avrebbe più riprovato. Quella che non avrebbe nemmeno più cercato.
Si chiamava Elia. Fuggiva dai tedeschi. Trovò un po’ di pace nel giardino del merlo. Trovò l’amore. Grazie a una ragazza che lo guardava. “In un modo come nessuno”.

«Uffa», brontola la bambina, intenta a intrecciare pratoline «in questo punto della storia ti fermi sempre. Non si sa mai cosa succede dopo»
La nonna sorride.

«Anche nelle fiabe è così»

«Ma tu non dici che vissero felici e contenti»

«Perché questa è una storia vera. E nelle storie vere è tutto un po’ più complicato».

La bambina abbassa la testa.

«Chissà se un giorno anche io qui troverò un principe azzurro»

La nonna le fa una carezza sulla testa.

Mentre tornano verso casa, la bambina si volta e le sorride.

La nonna teme il suo sguardo, teme altre domande, si tocca la collanina d’oro che porta ancora al collo e benedice il suo povero papà, che quel giorno sgridandola le fece incontrare l’amore della sua vita.
Silvia Montemurro

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