Il medico generico che ci può salvare

Un grande storico della medicina nel nuovo libro constata amaramente di aver previsto fin dagli anni ’80 le conseguenze dello svilimento di una figura decisiva per la salute pubblica

«Amico medico, ricordati del paziente», è un invito rivolto, da chi scrive qui, a se stesso e ai propri colleghi, nello scorcio degli anni Ottanta, dalla culturale terza pagina del “Corriere della Sera”: «Una “storia del futuro”, proiettante lo sguardo alle soglie del Duemila, può contemplare un medico di base senza base, impoverito della propria specifica cultura, influenzato dagli eccessi di medicalizzazione e burocratizzazione, scarsamente reattivo nei confronti degli stimoli sollecitanti i consumi. Un medico insicuro: la sua insicurezza di fondo non può trovare compensi negli esami diagnostici più specializzati e sofisticati. Senza una base sicura questi stessi esami, per quanto tendenti ad “avvicinare” il medico alla realtà  fisiopatologica del malato, finiscono per “allontanare” il medico dalla realtà  antropologica del malato stesso, inserendo tra i due un trait d’union tecnologico che diventa un diaframma interumano. Il pericolo ultimo è quello di una barriera calata tra medico e paziente a determinare una “medicina del silenzio” in contrasto con l’aforisma perenne che “un buon medico è la prima medicina”».

Lunga trascuratezza

Abbreviando una tale futurologia (che compete al medico in quanto la prognosi è predizione del futuro), vent’anni dopo questo pronosticato “fallimento del successo” (come dice il linguaggio degli economisti), l’arrivo nel 2020 della pandemia da Covid-19 dimostra, tra l’altro, la grande importanza e la grave mancanza di una medicina ambulatoriale e territoriale che, troppo a lungo trascurata, avrebbe potuto e dovuto fare da filtro e da contenimento attraverso una vera e non fittizia “prevenzione di precisione”.

Quella definita ufficialmente in tal modo è una prevenzione “sui generis”, molto precisa sotto l’aspetto predittivo, ma assai meno provvida sotto l’aspetto preventivo primario. Con i suoi alti costi, è letteralmente “appagante”, coltivata anche da una sanità privata, cosiddetta no profit, che, nata “sussidiaria” e complementare della sanità pubblica, lo è stata e lo è nel campo terapeutico e ora si dice esser tale anche nel campo della prevenzione, pur senza esserlo nel contesto ambientale, territoriale e sociale. In questo contesto, la privatizzazione di una gran parte della sanità poco o nulla ha giovato.

In trincea per 35 anni

Riflettendo su ciò, il 19 gennaio 2022, nella prima pagina del “Corriere della Sera” in un breve commento al triennio pandemico, si legge che tutto «ci ricorda quanto possa essere ancora utile [anzi necessaria] la medicina territoriale e come si sia sbagliato a ridimensionarla per ragioni di bilancio o per calcoli di bottega». [...]

Il “medico della mutua” ha esercitato il suo mestiere di medico - di famiglia, di ambulatorio, di territorio, “di base” - per trentacinque anni, dalla creazione nel 1943 dell’Istituto Nazionale Assicurazione Malattie (INAM) alla istituzione nel 1978 del Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Egli ha svolto la sua mansione e missione come “medico generalista”, di medicina “generale”, svalutato a “medico generico” dal confronto con la medicina “speciale” esercitata dal “medico specialista”.

Ha ricevuto apprezzamento dai molti assistiti che hanno trovato in lui una risposta adeguata ai loro bisogni, ma ha pure subito deprezzamento da chi lo ha fatto oggetto di ironia e finanche di satira.

Ha retto per sette lustri le sorti di una sanità  pubblica arretrata e ritardataria, nella lunga attesa di una riforma al passo con il tempo incalzante dello sviluppo tecnologico e con il tempo esitante del progresso civile e sociale.

Il “mestiere di medico” è stato da lui onorato volgendolo al fine di una tecnica migliore - “high tech” - e di un miglior contatto - “high touch” - con il paziente affidato alle sue cure per la salvaguardia della salute, il contrasto della malattia, la restituzione al lavoro e alla società .

Suo erede diretto, il “medico del servizio sanitario nazionale”, operoso in ambulatorio e nel territorio, ha ereditato anche, suo malgrado, la disattenzione e la disaffezione per il proprio “sapere” sanitario pressoché costantemente dimostrate da parte delle istituzioni detentrici del “potere” politico.

Oggi sono numerose le perorazioni da parte dei detentori di quello stesso potere (o di loro emuli portavoce e portaborsa) che propongono riforme della sanità  pubblica ambulatoriale e territoriale da essi stessi disattese in passato. Nell’ascoltarli, senza udire mai un cenno di autocritica e tanto meno di mea culpa, l’autore di questo libro, in cui si ripensa il passato, mette in guardia pensando al futuro.

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