Il ritorno in valle: le radici necessarie

Un’intevista allo scrittore Stefano Valenti inaugura la rubrica “Valtellina d’autore” curata da Lucia Valcepina: «Ho lasciato l’esasperato individualismo di Milano. Qui si può ricominciare a pensare una collettività»

di Lucia Valcepina

“Non un fiato, non un filo di fumo, non una presenza tutto intorno”
(Stefano Valenti, “Rosso nella notte bianca”, Feltrinelli, 2016).

Alcuni luoghi hanno la profondità del vuoto, risuonano di ricordi e ci conducono sulla soglia. La nostra rubrica dedicata alla Valtellina ha inizio dallo scrittore che, più di tutti, ha saputo indagare le lacerazioni e gli abissi della terra montana, tra realtà contadina, fabbrica e tragedie familiari, raccontandoci al contempo di un legame, nella vita e fra le pagine, ineludibile e sostanziale. Parliamo di Stefano Valenti, pluripremiato scrittore originario di Traona, che da due anni è tornato a vivere a Morbegno e oggi condivide con noi il suo sguardo sulla Valle.

“Ritorno”, una parola che ha in sé la nostalgia, il desiderio e la necessità di una scelta. Che significato ha per lei?

Molti dei miei racconti narrano la malinconia che nasce dall’avere abbandonato il luogo e la condizione d’origine, una malinconia che può anche trasformarsi in forme cliniche di psicosi e depressione. Nel mio caso il ritorno è stato un modo di ritrovare le parti dalle quali ero fuggito e ha significato ridare voce a quella duplice malinconia anche di classe che nasce dalla negazione dell’origine; non rimanere a vivere dove ero cresciuto mi ha impedito di sentirmi davvero a mio agio nel mondo. Lontano dalle origini, in un mondo piatto, mi sono perso e ho rischiato di finire col fare una narrativa patinata come molti degli autori che hanno perso le proprie origini. Il ritorno è stato l’antidoto alla perdita. Abbandonare le nostre radici ci cambia in diversi modi, molti dei quali rimangono inconsapevoli e quindi impossibili da modificare.

L’idea e l’atto del “ritorno” sono pregni di echi letterari. Che cosa richiamano alla sua mente di traduttore e scrittore?

Echi infiniti, l’essenza della tradizione narrativa. Ulisse e Abramo sono eroi del ritorno, per i quali il viaggio, iniziato come erranza, diventa ricerca e conoscenza di sé. Le loro storie dimostrano come il ritorno sia parte del patrimonio genetico della narrativa, da Omero a Rilke, da Joyce a Primo Levi, da Steinbeck a Pavese. Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via, scriveva Cesare Pavese ne “La luna e i falò”, romanzo che narra la storia di un ritorno a casa.

Lei ha saputo raccontare i luoghi valtellinesi nella loro autenticità, a volte disperata, ripercorrendone il cambiamento sociale e umano.

Si può esprimere l’amore per la propria terra anche attraverso la desolazione?

Lo si può fare, lo si deve fare. E anche in questo caso mi faccio aiutare dalla tradizione narrativa. Da Fenoglio a Volponi, da Bernhard alla Kristof, da Sebald alla Kincaid, la migliore narrativa della modernità ha concentrato la propria attenzione sulla riconsiderazione del termine Patria quale luogo dentro al quale agire il cambiamento.

Quanto si rispecchia nella cultura valligiana? È dall’attrito che nasce l’adesione?

Mi sono fin da subito rispecchiato nella cultura alpina e negli autori che ne rappresentano il riferimento necessario al di là dei confini nazionali. Ma da quando me ne sono andato dalla città e dal suo esasperato individualismo ho accentuato questo rispecchiamento sbarazzandomi di tutto quello che credevo di avere appreso dalla letteratura indotta dal neoliberismo. Mi sono ritrovato a immaginare un altro mondo, a considerare proprio l’attrito, come dici, dei racconti, molto semplici ma molto aderenti alla condizione di vita di autori come me.

Quali angoli o scorci del Morbegnese sente più vicini?

Sono cresciuto a Traona, paese natale di mio padre che era pittore. Ho vissuto lì dai tre ai tredici anni e lì ha vissuto la mia famiglia. Ora di quella famiglia non è rimasto nessuno. Mia madre si era trasferita a vivere a Morbegno alla morte di mio padre. Per noi Morbegno era “la città” dove andare a trovare quello di cui avevamo bisogno, e poi era la stazione dei treni che conducevano a Milano. Quando sono tornato a vivere in Valtellina, due anni fa, in piena pandemia, ho trovato rifugio nella Nuova libreria Albo di Nicola Scinetti e poi ho finito col vivere in una casetta a due passi dalla libreria e da Piazza San Giovanni. Ora casa per me sono quelle stradine racchiuse in poche decine di metri. In una di queste ha lo studio il fotografo Marcello Mariana, autore delle immagini che accompagnano questa intervista.

La sua è una scrittura realistica e visionaria al tempo stesso.

Crede sia stata in qualche modo plasmata da queste montagne aspre e, al tempo stesso, incantatrici?

Ne sono certo, è la montagna ad avermi convinto a cercare strumenti adatti al mio racconto. Nel ritornare qui avevo compreso che la ragione del non riuscire a finire il mio romanzo era il senso di vergogna che provavo nei confronti delle mie origini. Cercavo di ritrovare il modo di parlare che avevo da bambino. Mi rendevo conto di avere assimilato nel tempo talmente tante affettazioni, di avere raccontato talmente tante bugie al mio mondo interiore, da essere sprofondato dentro un’immagine fittizia di me stesso.

Si sente un uomo e uno scrittore di frontiera?

Lo sono. La mia è una frontiera di classe e culturale. Ho vissuto a Milano in un contesto di limiti sociali ed economici e mi rendevo conto di non avere accesso alla distanza che possiede la classe borghese, che è fatta di tradizione. Una distanza che consente di porre una barriera tra sé e il mondo. La mia è una tradizione sentimentale del tutto diversa, la tradizione della classe lavoratrice, un mondo palese che non ammette barriere. È una frontiera percepibile e da varcare anche nel mondo culturale, un divario che divide il mondo di sopra dal mondo di sotto. La Duras definiva miracolosa la mancanza di distanza contenuta nelle opere della classe proletaria.

Quale rischio porta con sé il ritorno?

Il rischio è abbandonarsi a una immaginaria montagna nella quale potere vivere per sempre dentro al passato perduto. Ma da quando ho iniziato a conoscere me stesso il problema dell’identità è diventato più importante di qualunque altra questione. Mi sentivo perso, ma nel ritornare a casa uno dei momenti più belli è diventato camminare per strade dove la gente mi saluta. Credo in questo modo di potermi concentrare sulla mia esperienza personale, senza più preoccuparmi di piacere agli altri. La Valtellina non è immune dalla perdita del senso di comunità, ma a restare viva in questa terra è la mancanza di forma dell’amore perduto, non per forza riempito da un immaginario di plastica. L’impressione è che da qui si possa ricominciare a pensare una collettività.

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