Iran, il genio rimosso: leggete Hedayat

Autore tra i più significativi del Novecento, sottoposto a censure dal regime in patria. Sono disponibili in italiano il romanzo capolavoro “La civetta cieca” e “Il randagio e altri racconti”

Flavio Santi

La lotta di questi mesi in Iran contro la terribile dittatura ci spinge innanzitutto ad appoggiare le istanze volte alla conquista della libertà e dei diritti civili, purtroppo odiosamente calpestati da un regime tirannico che dura da troppi decenni (dal 1979!), ed è anche l’occasione per approfondire una cultura che non è per nulla retrograda e conservatrice. Anzi.

Una cultura moderna

Si tratta di una cultura che ha prodotto uno dei romanzi più moderni e sconvolgenti di tutto il Novecento. Già dal titolo: “La civetta cieca” (edito in Italia dal valorosissimo editore Carbonio nel 2020). In realtà navigando su Internet si trova anche una vecchia traduzione per Feltrinelli, ma è stata fatta dall’inglese, non dal persiano, come invece questa - per la prima volta in Italia - di Carbonio che è opera di una delle più importanti iraniste italiane, Anna Danzan, la quale nel 2021 firma anche la versione della raccolta di racconti “Il randagio e altri racconti”.

Già la vita del suo autore, Sadeq Hedayat, è un romanzo, raccontato di recente nelle prime pagine di “Bussola” di Mathias Enard: nato nel 1903, si forma nelle migliori scuole internazionali di Teheran, per poi trasferirsi in Belgio, Francia e India. Proprio a Bombay pubblica nel 1936 “La civetta cieca”, inizialmente in pochissime copie, ma ben presto il libro ha un grande successo. In Iran verrà pubblicato soltanto nel 1941, alla caduta di Reza Shah Pahlavi, anche se in patria è sempre stato fortemente censurato, e al massimo è circolato in forme ridotte - e non fatichiamo a immaginare che oggi non circoli del tutto. Hedayat muore a Parigi, suicida, nel 1951 in un piccolo appartamento di rue Championnet, uccidendosi con il gas - e Enard nota come ancora oggi nessuna targa commemori quel tragico evento e la grandezza dello scrittore. Sì, perché siamo di fronte a un autore degno di stare alla pari con i migliori esiti di fine Ottocento e inizi Novecento - da Edgar Allan Poe ad Arthur Schnitzler, da Dostoevskij a Franz Kafka, di cui è anche traduttore.

L’inizio sembra un Dostoevskij persiano: «Nella vita ci sono malanni che come lebbra, nella solitudine, lentamente mordono l’anima fino a scarnificarla». Come tutti i grandi libri innovatori, “La civetta cieca” non è facilmente classificabile: romanzo lirico? Confessione di un oppiomane? Delirio di uno psicopatico? Riflessione filosofico-teologica? Diario di un futuro suicida? Terrificante premonizione del tragico destino dell’autore in persona? La trama è una sorta di vortice, con continui rimandi e dislocazioni soprattutto temporali: si viaggia tra presente, passato e futuro, in una concezione liquida del tempo, tipica delle culture orientali; il protagonista che parla in prima persona non ha un nome, non una città precisa in cui vive (ogni tanto si cita Rey, a sud di Teheran, ma non è la sua città), ha una moglie che chiama la Sgualdrina, che è sua cugina, fra l’altro, un padre che forse è suo zio, o viceversa, una Tata che gli ha fatto da madre più o meno amorevole, e poi una dipendenza dall’oppio e dal vino che sembra ottundergli la percezione del mondo esterno.

Ossessioni rasoiate

Con un linguaggio secco ma lirico, ricco di immagini poetiche («occhi come diamanti neri allagati dalle lacrime», «porta aperta come la bocca di un morto») e sapienziali («Non c’è Dio all’infuori di Dio»), il protagonista affronta le sue molte ossessioni: la morte, il suicidio, il tempo, l’incesto, l’amore, le relazioni con gli altri uomini. Procede per autentiche rasoiate, che colpiscono per crudezza di dettagli e profondità di introspezione: «Spesso di notte la stanza sembrava rimpicciolirsi, con i muri e il soffitto che si facevano sempre più vicini. […] C’è qualcuno che abbia idea di cosa sentano i morti? Anche se il sangue cessa di circolare e dopo ventiquattr’ore alcune parti del corpo si decompongono, unghie e capelli continuano a crescere per un po’. Allora, sensazioni e pensieri cessano quando il cuore si ferma? O invece, grazie al sangue depositato nei capillari, continuano una sorta di vita?»

Per questa contiguità tra vita e morte, per l’assurdità dell’una come dell’altra, André Breton e i surrealisti francesi hanno molto amato Hedayat - che in effetti può richiamare i vertici di un Nerval, o dello stesso Breton di “Nadja”. La civetta cieca è un simbolo di sventura e di solitudine, ma nel corso del libro non compare quasi mai: la simbologia del libro chiama in causa soprattutto l’ombra, con cui il protagonista dialoga febbrilmente, il fiore della calistegia, una specie di convolvolo azzurrino, la carne macellata - Hedayat era vegetariano -, e altri simboli oscuri e tetri - mosche ronzanti, grovigli di vermi bianchi, bombi svolazzanti.

Finale inatteso

Un altro Hedayat, altrettanto tagliente e acuto, è quello dei racconti del “Randagio”. Qua invece l’ambientazione gioca un ruolo determinante, calando i personaggi in un preciso contesto iraniano, fatto di ciador, bazar, profumi intensi, strade polverose, animali randagi appunto.

Nove racconti scelti da Anna Vanzan e superbamente tradotti: un iraniano istruito all’estero che si innamora di un manichino, due sorelle contrapposte tra loro, l’indagine sui motivi di un suicidio con un finale inatteso, un cane maltrattato che trova nella morte una dolce consolazione. Anche qui diamo voce direttamente a qualche riga di testo perché si possa apprezzarne la fibra, struggente e modernissima: «Si sentiva confuso, i suoi pensieri e i suoi sensi erano divenuti vaghi e oscuri, aveva un dolore forte nello stomaco e gli occhi erano lucidi dal male. Fra brividi e spasmi a poco a poco perse il controllo delle sue zampe, e un sudore freddo lo assalì in tutto il corpo. Era un senso di frescura piacevole e estraniante». Anche qui vita e morte stretti in un unico vincolo, e perdipiù non nell’esistenza di un essere umano, ma di un cane.

Speriamo ardentemente che presto arrivi il giorno in cui anche in Iran si potrà tornare a leggere liberamente, senza tagli e censure, Sadeq Hedayat: vorrà dire che la libertà sarà di nuovo di casa nel meraviglioso Iran, dopo folli decenni di crudeli sofferenze. Noi non possiamo che intonare il canto di libertà iraniano: «Donna vita libertà».

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