Le marce presentano una tecnica affinata
da Balbo

Intervista Mimmo Franzinelli è studioso del fascismo e dell’Italia repubblicana, è membro della Fondazione “Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini” di Firenze

“Fascista” Meloni , “fascista” Putin, “fascista” Orbán, “fascista” Bolsonaro… “Fascisti” tutti? La disputa sul termine, ciclicamente, si ravviva e il rischio è sempre quello che diventi un’etichetta inflazionata. «Prima che da noi la questione si è posta in Francia. Lì la parola “fascista” è stata talmente sfruttata da risultare inutilizzabile» dice lo storico Mimmo Franzinelli, a un secolo dalla Marcia su Roma, alla quale ha dedicato un nuovo saggio, “L’Insurrezione fascista” (Mondadori).

Nell’ottobre 1944 appariva sul “Giornale di Napoli” un articolo a firma Benedetto Croce che fin dal titolo poneva la domanda: chi è “fascista”?

Credo che il fascismo storico sia tramontato e che non tornerà mai più. Nel caso di Giorgia Meloni è evidente che non sia fascista, quanto piuttosto populista e autoritaria. E tuttavia mi pare emblematico il fatto che continui a considerare suo maestro Giorgio Almirante. Le radici di Meloni derivano dal fascismo più radicale. Nel logo di Fratelli d’Italia campeggia del resto il simbolo mussoliniano della fiamma tricolore. Diciamo che gli ascendenti meloniani sono questi.

In un saggio discusso e intitolato “ Il fascismo eterno” Umberto Eco ne faceva una sorta di categoria dello spirito. Da storico, lei come la vede?

Non sono d’accordo con Eco. Il fascismo non è una categoria dello spirito, ma un prodotto della società italiana. Non sono d’accordo nemmeno con l’interpretazione opposta, quella di Benedetto Croce che paragonava il fascismo a un’invasione dei barbari, leggendolo come una parentesi storica. Il fascismo è l’esito di un inveramento di pulsioni autoritarie già presenti nell’Italia liberale. Poi senza la Grande Guerra non avremmo avuto il fascismo: è da lì che Mussolini si trasforma, trova i suoi seguaci negli arditi... Sappiamo quali sarebbero state le conseguenze storico-politiche del regime. Oggi quelle condizioni non esistono più, ma le spinte populiste convergono verso nuove forme di nazionalismo e sembrano andare nella direzione non dico di un’Internazionale Nera, ma di un’Europa in cui i sovranismi infiammano i popoli. Questo è un dato preoccupante per la democrazia. Perché il fascismo andò al potere proprio in un contesto di crisi della democrazia. Che non era più vista come valore da salvaguardare, ma come un ostacolo. Oggi, a volte, si torna a vederla così.

Veniamo alla Marcia su Roma e al suo libro, “L’insurrezione fascista”. Perché il termine “insurrezione” ?

Ho tentato di fare una ricerca innovativa. E tra i materiali che ho esaminato ci sono i rapporti dei prefetti delle giornate decisive che sono sostanzialmente quelle del 26, 27 e 28 ottobre del 1922.

Che cosa ne è emerso?

In quei documenti si coglie il senso dell’operazione di Mussolini. Il quale si sentiva impreparato perché le squadre d’azione non erano un esercito. Erano unità di giovani militanti pieni di entusiasmo ma a digiuno di strategie belliche.

Allora che cosa fa Mussolini?

Non punta su Roma ma conquista al Nord le periferie dei capoluoghi, dunque le prefetture, e a quel punto può compiere il passo decisivo. Un altro aspetto che cerco di analizzare nel libro è l’intelligenza di Mussolini e la sua doppiezza. Da un lato manda i suoi all’attacco e dall’altro continua a negoziare fino all’ultimo istante con i notabili liberali lasciandoli nella speranza di combinazioni parlamentari guidate, a seconda, da Giolitti, da Salandra o addirittura da Nitti. Il suo è un capolavoro di strategia. Vince con questo tipo di insurrezione, non con la Marcia su Roma, che avverrà il 31 ottobre quando lui è già Presidente del Consiglio.

Lei indaga anche sul ruolo di Italo Balbo.

Su Balbo c’è una deriva della memoria alla quale ha contribuito in un certo senso anche l’opera di grandi divulgatori e giornalisti come Indro Montanelli o Leo Longanesi che hanno guardato al fascismo con atteggiamento bonario. Italo Balbo, il Ministro dell’Aviazione che morirà abbattuto a Tobruk per un errore della contraerea italiana, viene ricordato nel secondo dopoguerra non tanto per il ruolo fondamentale che ricoprì nello smantellamento della democrazia quanto per il contributo all’aviazione e per le circostanze della sua morte. Non c’è dubbio invece che dei quadrumviri di Mussolini Balbo fosse quello strategicamente e militarmente più preparato. De Bono e De Vecchi erano moderati, puntavano a un compromesso con la classe dirigente liberale. Mentre gli altri due, cioè Bianchi, che era molto vicino a Mussolini sul piano politico, e Balbo, su quello militare, miravano a una vittoria che desse tutto il potere ai fascisti. Balbo è quindi il responsabile immediato di tutta quella operazione che è passata alla storia e forse anche alla mitologia col nome di Marcia su Roma. D’altronde, nel 1921-’22, lo stesso Balbo si era piegato agli interessi degli agrari sperimentando a livello provinciale, poi regionale la tecnica interessantissima della “marcia” - su Ferrara, su Ravenna, su Bologna - che poi a fine ottobre sarebbe diventata a Roma l’insurrezione fascista.

Mentre si preparava “l’insurrezione” Mussolini dove si trovava?

È interessante ricordare quel che accadde proprio nel comasco. A Cavallasca, Margherita Sarfatti, musa ispiratrice di un salotto letterario che riunì artisti e poeti dei primi del Novecento e amante di Mussolini, aveva una residenza estiva, Villa del Soldo, divenuta buen retiro del futuro duce negli anni 1921/22. Mussolini soggiornò al Soldo anche nelle giornate decisive in cui preparava l’insurrezione. Nella “Marcia su Roma” si è sempre troppo enfatizzata la capitale, mentre fu centrale il ruolo di Milano, dove il fascismo era nato nel 1919, con i sansepolcristi, e dove si sarebbe consolidato. Non è un caso che Mussolini risieda a lungo a Milano, alla direzione del Popolo d’Italia, e che da lì diriga e muova le sue pedine. Nella Marcia su Roma non fu decisiva l’attività militare o paramilitare del quadrumvirato a Perugia, che è località, dal punto di vista logistico, totalmente svantaggiata per treni e strade. Fulcro dell’operazione è invece Milano, dove Mussolini, utilizzando anche il prefetto Lusignoli, muove il gioco a suo favore. La realtà milanese e lombarda del fascismo antemarcia meriterebbe una considerazione più attenta.

E, intanto, la democrazia liberale che faceva, come reagiva?

Da libri-testimonianza come quello di Emilio Lussu “Marcia su Roma e dintorni” l’antifascismo politico, incarnato dai partiti che il fascismo avrebbe travolto, non esce proprio bene…

Lussu era innanzitutto uomo d’azione, credeva nei valori dell’individuo e della coscienza. I cedimenti di tipo opportunista li condannava ancor prima che sul piano politico su quello morale. In quel libro presentava gli antifascisti in modo macchiettistico, ma in quel ritratto c’era del vero. È poi sicuro che i primi alleati di Mussolini badassero di più alle liti interne al Partito socialista che non alla situazione che si andava preparando. In effetti quel libro di Lussu è un capolavoro, assieme all’altro, precedente, “Un anno sull’altipiano”. Emilio Lussu aveva una limpidezza di scrittura, un’ironia stupefacenti. Le conservò anche mentre era ammalato e in esilio.

Torniamo allo stato critico delle democrazie e alle tentazioni populiste.

Lei come legge questa crisi soprattutto alla luce della situazione italiana?

Se noi guardiamo alla politica in modo più esteso credo che un valore molto positivo e propositivo dell’Italia resti il settore del volontariato, nelle sue correnti cattolica e laica. È una forma di partecipazione, dunque è democrazia. Purtroppo ci siamo abituati – e in tal modo abbiamo avvelenato il nostro quotidiano - all’equazione “Politica uguale Palazzo”, “Politica uguale giochetti di vertice”. È una prospettiva sbagliata, ci fa perdere di vista la realtà, e cioè che la politica è partecipazione dei cittadini, dal basso. Una partecipazione che purtroppo esiste sempre meno. Credo che gran parte della responsabilità l’abbiano i mass-media: stampa e televisione ci hanno dato a credere che politica sia intrigo, sgambetti, veti incrociati e accordi di convenienza al vertice. Nient’altro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA