Lo spirito di Harrison, che resiste a Spotify

“Here comes the sun” è la canzone dei Beatles più ascoltata online. A ottant’anni dalla nascita la sua musica vive così come i film che ha prodotto e resta indelebile il contributo che ha dato alla conoscenza della cultura indiana nel mondo

Pietro Berra

«Non ho mai saputo che la vita fosse carica / Frequentavo solo uccelli e api / Non ho mai saputo che le cose esplodessero / L’ho scoperto solo quando ero in ginocchio / A cercare la mia vita, a cercare la mia vita».

Ha cercato la vita in tanti modi e in tanti luoghi, George Harrison, e sembra averne vissute almeno quattro, tra quando nacque a Liverpool il 23 febbraio di ottant’anni fa e quando morì a Los Angeles dopo sole 58 primavere, il 29 novembre del 2001. È stato il “quiet beatle”, autore di poche ma luminosissime perle dei “Fab Four”, poi il cantautore ispirato che ha saputo aprire gli occhi e l’anima degli occidentali alla musica, alla spiritualità e ai problemi del subcontinente indiano, quindi il produttore coraggioso dei film dei Monty Python (e non solo), infine si è ritrovato, suo malgrado, a essere “l’uomo in ginocchio a cercare la sua vita”, mentre questa scivolava via, inaspettatamente e anzitempo.

Nel 1998 cominciò a metterlo alla prova il cancro, nel ’99 un tossicodipendente si introdusse nella sua villa e lo accoltellò al torace. Probabilmente da queste esperienze nacque “Looking for my life”, canzone contenuta nell’ultimo album “Brainwashed”, completato e pubblicato un anno dopo la sua morte dal figlio Dhani e dall’amico di lungo corso Jeff Lynne, ex leader dell’Electric Light Orchestra. Come spesso è accaduto nella vita e nell’opera di Harrison, anche questa canzone è fatta di contrasti: in ginocchio sì, ma sorretto da una musica scoppiettante, come chi sa che la fine della vita terrena va celebrata, anzi festeggiata. Non c’è più tempo per “piangere”, parola chiave di due brani in cui è racchiusa la sua parabola beatlesiana: “Cry for a shadow”, strumentale composto con Lennon nel 1961 e primo brano registrato per un disco come band di supporto di Tony Sheridan; “While my guitar gently weeps”, il capolavoro del “White album” (1968), prova di una raggiunta maturità come compositore e punto di non ritorno di un’insofferenza verso l’egemonia di Lennon e McCartney, esplosa nell’abbandono degli studios durante le registrazioni di “Abbey Road” come si è visto nel documentario “Get back” (2021) di Peter Jackson (a proposito di contrasti e alla faccia di chi lo aveva etichettato come il “Beatle calmo”).

Fuori dall’ombra

Più che il “pianto” è stata l’“ombra”, tornando al titolo di quel primo brano scritto a 18 anni, a segnare la sua parabola terrena. Un’ombra così lunga, che qualcuno si stupì ed ebbe il coraggio di polemizzare ancora dieci anni dopo la sua morte, nel 2011, quando Martin Scorsese gli dedicò un documentario - “George Harrison: living in the material world” - imponente al pari di quello che aveva realizzato sei anni prima su Bob Dylan (“No direction home”). “Davvero Harrison meritava una simile attenzione?” si chiesero in molti. La risposta la si ottiene guardando il documentario stesso: 309 minuti di incredibile densità, accompagnati nell’edizione italiana per la collana Real Cinema di Feltrinelli dal libro “All things must pass” di Federico Pontiggia, che ci porta dietro le quinte del film, dove lo stesso regista ricorda con parole esemplari il momento in cui Harrison si rivelò al mondo nella sua complessità, pubblicando il triplo album “All things must pass” (1970), a soli sette mesi dall’annuncio ufficiale dello scioglimento dei Beatles. «Non dimenticherò mai [...] quella sensazione travolgente di assorbire per la prima volta tutta quella musica gloriosa - dice Scorsese - . Era come camminare in una cattedrale».

Tra le definizioni di Harrison, sembra particolarmente calzante quella che dà Terry Gilliam, regista, attore, produttore e anima dei Monty Python, nelle prime battute del documentario: «Questo era George: eleganza e ironia e una strana forma di rabbiosa amarezza per certi aspetti della vita».Già, bisogna sempre evitare le agiografie, dei santi come delle rockstar, e la “rabbiosa amarezza” evidentemente è l’altra faccia del musicista che ha invocato la pace e dio più di chiunque altro, da “My sweet lord” a “Give me love (Give me peace on earth”). Altre canzoni rivelano il lato inquieto e insofferente: la prima, e più famosa, è certamente “Taxman”, contenuta in “Revolver” (1966) dei Beatles, e richiamata anche da Gilliam quando sottolinea che pure nella fase finale della sua vita l’amico prese casa in Svizzera per aggirare “l’uomo delle tasse”; l’ultima “P2 Vatican Blues (Last Saturday Night)” dal disco postumo “Brainwashed”, in cui allude ai segreti del Vaticano (“La verità è nascosta, in agguato, bancaria / Cose che fanno di notte” dicono alcuni versi, particolarmente attuali ora che si riapre il “caso Emanuela Orlandi”).

Gilliam può dire di aver conosciuto bene il “Beatle George” e sicuramente è legato a lui anche da una certa gratitudine, visto che nel 1978 Harrison ipotecò la tenuta di Friar Park nell’Oxfordshire, per 4 milioni di dollari, investendoli per produrre “Brian di Nazareth” dei Monty Python, dopo che la Emi si era tirata indietro intimorita dalla satira religiosa contenuta nella sceneggiatura. Con l’asciutto umorismo british che lo caratterizzava fin dalle prime interviste con i Beatles, George spiegò la sua scelta coraggiosa, e per alcuni scriteriata, dicendo semplicemente che desiderava vedere il film. Al che un altro dei Monty Python, Eric Idle, definì il suo gesto come «il biglietto più alto mai pagato per entrare al cinema». In ogni caso furono soldi ben spesi: nei soli Stati Uniti il film incassò 20 milioni di dollari e ricevette per lo più critiche lusinghiere in tutto il mondo. «La parodia religiosa [...] è accennata in tono scherzoso, e non dovrebbe irritare nessuno - come ben scrisse Alessandra Levantesi Knezevic su “La Stampa” anni dopo, nel 1991 - In realtà il vero bersaglio dei Monty Python è ogni forma di fanatismo collettivo, compreso quello ideologico-politico dei gruppi eversivi. C’è materia per ridere, a tratti anche molto, e per meditare».

La HandMade ha prodotto 27 film fino al 1991, quando Harrison la dovette cedere per via dei debiti accumulati dal suo socio Denis O’Brien. Nel 1986 realizzò quelli che la critica ha ritenuto rispettivamente il migliore (“Mona Lisa” di Neil Jordan con il 97% di recensioni positive) e il peggiore (“Shanghai Surprise” di Jim Goddard con Madonna e Sean Pen, nonché lo stesso Harrison che appare come cantante di night club e firma parte della colonna sonora, con il 13%).
Sul George Harrison ponte tra Occidente e Oriente, le parole più efficaci le ha spese Peter Ciaccio, pastore metodista e autore del libro “Il Vangelo secondo i Beatles”, su un numero de “L’Ordine” del 2020 che dedicammo al 50° dello scioglimento dei Fab Four: «Ha realizzato una delle imprese più importanti del rock con il concerto per il Bangladesh. Prima non solo erano rare le esibizioni di beneficenza, ma, soprattutto, non andavano al di là delle proprie prospettive. Harrison, invece, spinge per la prima volta tutto il mondo a occuparsi di un piccolo Stato al confine con India e Pakistan. Sempre nel nome di quell’amore universale». Inoltre, «Harrison porta al primo posto in classifica “My sweet Lord”, mio dolce Signore, cantando “Hare Krishna”. Neppure Gandhi, che aveva piegato il colonialismo britannico con “l’arma” della non-violenza, era riuscito a rendere non solo popolare, ma anche degna di studio e di attenzione la spiritualità orientale». Tra gli “inni religiosi” scritta da Harrison, segnaliamo, da rivalutare accanto alla più celebre “My Sweet Lord” (1970), “Life Itself”, perla dell’altrimenti mediocre album “Somewhere in England” (1981), in cui accompagna con la slide guitar un canto ispirato e che unisce tutte le religioni: «Tu sei l’essenza di tutto ciò che gustiamo, tocchiamo e sentiamo [...] Ti chiamano Cristo, Vsnu, Buddha, Jehovah, nostro Signore [...] Tu sei il mio amico e quando la vita finisce / tu sei la luce nella morte stessa».

Numeri e cover

Oggi George Harrison porta un raggio di sole anche nell’era liquida di Spotify. La sua “Here comes the sun” è di gran lunga la canzone dei Beatles più ascoltata sulla piattaforma: quasi un miliardo di volte, mentre “Let it be” e “Yesterday” si fermano attorno ai 550 milioni. Un brano che non finisce di ispirare rivisitazioni di artisti più giovani (come Sheryl Crow, Pharrell Williams e Brad Paisley). A proposito di cover, Harrison è anche l’autore della seconda canzone dei Beatles più rivisitata: “Something”, forte di 577 cover stando al sito “Second hand songs”, dietro l’inarrivabile “Yesterday” che veleggia oltre quota mille.

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