Marilyn Monroe, una famosa sconosciuta

L’icona e la donna Proviamo a parlare della celebre attrice senza fare riferimento a gonne svolazzanti e gocce di profumo Chanel numero cinque: ne esce il ritratto di una donna alla ricerca che ha preso lezioni per tutta la vita

Ancora una volta parliamo di Marilyn, ma cerchiamo di parlare “proprio di lei”. Proviamo a non parlare dell’icona, delle gonne svolazzanti sulla grata del metro, dei matrimoni e dei suoi uomini, dei Kennedy e di Joe di Maggio, soprattutto di Arthur Miller. Proviamo a non parlare delle gocce di Chanel 5, quelle che non mancavano mai sul suo corpo, anche nudo; proviamo a non parlare delle foto di lei tra le lenzuola, di lei in costume da bagno, delle sue scarpe ora conservate addirittura in un museo, di “Happy birthday, Mr. President”, della bomba sexy, di “gli uomini preferiscono le bionde”. Proviamo soprattutto a non parlare del suicidio.

No, parliamo di lei, di Norma Jeane Mortenson nata a Los Angeles, 1 giugno 1926 e morta, sempre a Los Angeles, 5 agosto 1962. Attrice, poi conosciuta con il nome di Marilyn Monroe. Di una diventata bionda, per sempre e per tutto il nostro immaginario e per ogni immaginazione. Sì, di lei attrice, come certamente Marilyn avrebbe voluto essere ricordata, fuori dall’immagine commemorativa-idolatrica-consumistica-misticheggiante-mitica che è diventata nel ricordo pop di ognuno di noi.

L’ultima intervista due giorni prima della morte 1/2

Marilyn era infatti soprattutto un’attrice, visto che non è stata madre né sposa felice, ideali allora di ogni donna. Direi di più, Marilyn è stata una donna che già allora ha cercato di realizzarsi soprattutto nel proprio lavoro. Cosa ha cercato Marilyn per tutta la vita e per tutta la carriera? Un uomo che le desse sicurezza e un ruolo cinematografico che facesse emergere tutto il suo valore recitativo. Non troverà né l’uno né l’altro. Gli uomini volevano la donna allegra, spensierata: il modello anni Cinquanta di moglie come “porto sicuro” in cui approdare nelle cassette a schiera dei sobborghi americani dopo il lavoro, tutta dedita al menage familiare, e invece Marilyn era una ragazza piena di complessi, che beveva e prendeva molte medicine, tra cui tranquillanti, sonniferi e altro, che era sempre in ritardo sul set perché aveva una paura matta di “entrare” nel personaggio ogni mattina che l’autista di una major andava a prenderla per portarla negli studios. Marilyn era una donna dedicata all’amore, appassionata oltre misura, che avrebbe voluto figli, ma ha collezionato aborti, che soprattutto avrebbe voluto essere considerata non solo per il suo corpo (neanche Arthur Miller riuscirà a tirarla fuori dalla depressione della solitudine sentimentale in cui cadeva ogni volta che cerca in un uomo un appoggio).

L’ultima intervista due giorni prima della morte 2/2

Gli spettatori, e di conseguenza i produttori che su di lei investirono per avere ritorni economici strabilianti (e li avranno), anche loro cercavano la “dumb blonde” (”oca bionda”, come dire “oca giuliva”). E ci saranno film strepitosi in cui Marilyn rivelerà non solo tutto il suo fascino femminile, ma anche una non comune vena comica: “Quando la moglie è in vacanza” (“The Seven Year Itch”, 1955) di Billy Wilder con appunto la famosa scena della gonna sollevata dall’aria che esce dalla grata della metropolitana e “A qualcuno piace caldo” (“Some Like It Hot”, 1959) insieme a Jack Lemmon e Tony Curtis, sempre di Billy Wilder, per rimanere solo a due dei suoi maggiori successi che ancora oggi sono visti e rivisti da ogni pubblico.

Ma Marilyn, che cercava il successo e la sicurezza economica derivante, anche l’agiatezza e il lusso, era in realtà più esigente: voleva essere considerata per il suo talento drammatico, non solo come la splendida “bionda” del cinema americano. Cercherà infatti sempre nella sua vita altre profondità: l’intelligenza della politica nei fratelli Kennedy, John e Bob; la scrittura teatrale impegnata in Arthur Miller, l’indipendenza cinematografica creando una sua società di produzione, la “Marilyn Monroe Production”, il cui unico film prodotto sarà “Il principe e la ballerina” (“The Prince and the Showgirl”, 1957), ma del grande attore britannico Laurence Olivier.

In questo percorso di emancipazione dal suo stesso personaggio la Monroe puntò soprattutto sulla recitazione. Prese lezioni tutta la vita, come un’autentica professionista perfezionista, e ad un certo punto incontrò sulla sua strada l’ Actors Studio di Lee Strasberg a New York. Negli anni Cinquanta, e poi fino ad oggi segnando per sempre la recitazione americana, l’Actors Studio acquisiva la ribalta piena dell’interpretazione attoriale di successo. Com’era la scuola che proponeva Lee Strasberg?

Era l’importazione del metodo elaborato dal grande attore e regista e teorico della recitazione russo Stanislavskij che si basava sulla “riviviscenza” personale dell’attore per rendere il suo personaggio sempre più vero, più naturale, proprio come estremo esito di quel “naturalismo” che dalla Francia aveva conquistato l’Europa e il mondo occidentale nel tardo Ottocento e agli inizi del Novecento. Per Stanislavskj l’attore doveva recuperare dentro di sé qualcosa di simile alla scena che stava interpretando: per esempio, Nora abbonda il marito nel finale di “Casa di bambole” di Ibsen, l’attrice che interpreta Nora deve allora ricorrere ad un ricordo personale in cui lei aveva abbandonato qualcosa (una persona, un oggetto, un progetto) per rivivere sul palcoscenico le stesse sensazioni e così trasmetterle al pubblico.

Si usciva così definitivamente dai ruoli stilizzati (fingo di strapparmi i capelli perché ti sto abbandonando con dolore) per entrare in ruoli vissuti “realmente” nel corpo ricettivo dell’attore. Questo tecnica è estremamente efficace, ancora di più al cinema che al teatro, e Strasberg incentivò proprio questa trasposizione tra i due mezzi espressivi. Infatti, era difficile ritrovare ancora fresca la “riviviscenza” alla centesima replica teatrale, mentre nel cinema era proprio questa tecnica a guidare l’attore da una scena all’altra, spesso girate a parecchi giorni di distanza, come succede sul set dove prevale la logica produttiva e tutte le scene in un medesimo luogo vengono girate di seguito a prescindere poi dall’interpolare nella storia durante il montaggio: l’inizio e il finale di un film possono essere girati tutti all’inizio della lavorazione, anche nella stessa giornata, per esempio.

Ma la tecnica della reviviscenza implica un grande dispendio di energia psichica da parte dell’attore che viene “prosciugato” del suo vissuto personale per “darlo” al pubblico. Implica un training continuo dell’attore che periodicamente riprende le sue sedute all’Actors Studio per ritrovare anche se stesso. Non a caso da questo metodo derivano anche pratiche psicoanalitiche di grande impatto come lo “psicodramma” di Moreno che spesso viene ancora oggi ripreso o a cui comunque si rifanno non poche pratiche terapeutiche.

Non a caso i grandi attori cinematografici che uscirono dall’Actors Studio, da James Dean a Marlon Brando, ebbero tutte vite “estreme”. E ciò è valido anche per Marilyn, che all’Actors Studio era tornata più volte, anzi aveva addirittura dedicato un anno sabbatico della propria vita di attrice ormai di successo internazionale e aveva inoltre incaricato la seconda moglie di Strasberg, Paula, di seguirla e accompagnarla nelle sue scelte artistiche ed esistenziali. E quando Marilyn morirà sarà proprio Lee Strasberg a leggere il discorso funebre. E fu giusto così: Marilyn era morta per molte ragioni personali – perché poco amata e molto sfruttata – ma anche per quelle professionali: aveva dato molto, ma non era ancora stata riconosciuta per quanto avrebbe potuto dare di più e meglio. Fu anche questo dolore che la uccise.

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