“Storie nate dai vostri occhi”: una collaborazione online tra scrittrice e lettori.
“Pinina alla gogna. La verità della pietra”

Parte 1 Un nuovo progetto web del nostro sito: consigliate alla scrittrice tramite il box all’interno dell’articolo quello che più vi colpisce del paesaggio intorno a voi, dettagli curiosi e scorci inediti e lei ci scriverà un racconto. Qui la prima storia.

IL PROGETTO “STORIE COI VOSTRI OCCHI”

Come nascono le storie? Spesso da un dettaglio notato per caso. Silvia Montemurro, scrittrice di racconti e romanzi nata a Chiavenna, sta realizzando per “L’Ordine” una serie di storie ispirate da dettagli reali delle provincia di Como e Sondrio. Si tratta di un progetto di scrittura partecipato, cui tutti i lettori possono contribuire segnalando un luogo o un particolare nel box che trovate qui sotto.

Silvia Montemurro, classe 1987, ha esordito nel 2013 con “L’inferno avrà i tuoi occhi” (Newton Compton). È da

poco uscito il suo nuovo romanzo “Trovami nel sole” (Sperling&Kupfer), che segue i fortunati “La casa delle farfalle” (Rizzoli, 2018), “I fiori nascosti nei libri” (Rizzoli, 2020) e “L’orchestra rubata di Hitler” (Salani, 2021).

Il primo racconto: “Pinina alla gogna. La verità della pietra”

Tutti i giorni della mia infanzia sono trascorsi passando davanti alla gogna, il collare di ferro stretto attorno al collo dei criminali esposti alla berlina. Ancora oggi si può vedere questo strumento di tortura, in via Dolzino a Chiavenna. Mi sono immaginata questa storia per dare voce a chi non l’ha mai avuta.

Sono nata in una piazza, morirò in una piazza.

La mamma aveva fretta di partorirmi, lei sapeva come si faceva, dopo otto figli tutti maschi, spinger fuori una bambina di un chilogrammo non le pareva neanche vero. Non ha chiamato la levatrice, non aveva tempo: era in piazza Pestalozzi quando ha sentito che si rompevano le acque. Ha sorriso al fruttivendolo e gli ha chiesto se poteva accomodarsi un attimo sul retrobottega, che c’aveva caldo. È entrata nel portone di legno, si è messa nel sottoscala, in posizione. Una donna è passata e l’ha sentita che urlava e spingeva, le ha chiesto se volesse una mano.

«Vai a prendermi del latte, che io sto figlio me lo voglio staccar via il prima possibile», le ha detto la mamma.

«Povera creatura», ha mormorato la donna, ma è corsa dal lattaio. Intanto la mamma spingeva e urlava, ma dalla piazza nessuno sentiva, perché c’era il chiacchiericcio del mercato.

Quando sono spuntata fuori c’era anche il fruttivendolo, infatti tanti hanno malignato che fossi figlia dell’albero di cachi, ma la mamma ha sempre detto che quel vile di mio padre non le lasciava il tempo di avere il ventre libero per tradirlo.

Dicono che quando ha saputo che ero femmina ha mormorato qualcosa come «Che dio mi aiuti», poi è svenuta e allora hanno chiamato il medico, c’era sangue dappertutto, pensavano sarebbe morta.

Invece no, la mamma ce l’ha fatta e mi ha cresciuta col latte suo, alla fine, ringhiando bestemmie sommesse perché le facevo cadere i seni già smunti.

Io non ho mai deriso nessuno

Morirò in piazza, la stessa dove sono nata, decapitata. Quindi i vostri sberleffi e sputi non mi stanno oltraggiando. Mi fate pena, se nella vostra miserabile vita altro non avete che da deridere una povera stolta, attaccata alla gogna.

Io non ho mai deriso nessuno che si trovasse qui al mio posto, col collare di un cane, rannicchiato al masso un giorno e una notte, a urinare le sue paure e provare a succhiare l’ultimo brandello di ossigeno.

Non perché sia una brava cristiana. Bestemmio anche io, senza farmi sentire, vado alla messa e mi distraggo con le teste davanti, immagino come sarebbe vederle ruzzolare da qui con i colli impreziositi di perle, comprate al mercato nero.

Non ho mai deriso nessuno perché ho il brutto vizio di guardare il malcapitato negli occhi. E non vedo il crimine che ha commesso, ma il terrore di finire senza testa. La vergogna di essere al collare, con la gente che butta pomodori marci e sputi di lama.

Non ho mai fatto l’amore

Sono passate anche l’Ernestina e l’Augusta, hanno sputato anche loro. Ma non voglio dir male di queste due, perché abbiamo giocato a campana insieme per molti anni, e sono ancora due bambine. Anche io non ho l’età matura, provo a guardarle negli occhi, ma loro rifuggono, hanno paura del pozzo scuro di angoscia in cui incapperebbero.

Non ho mai fatto l’amore, non avrò mai figli, nessuno mi vedrà invecchiare. Non avrò una mia lapide su cui piangere il ricordo, perché siamo poveri e per noi c’è un prato comune. Ma ho questa pietra, che tocco, che lorderò con la mia urina, che saprà cosa ho passato, a cui voglio confidare svelta la mia verità.

Sono alla gogna con la pena di morte, accusata di aver ucciso mio padre. Il papà ha sempre fatto coltelli, affilato lame, addestrato apprendisti. I miei fratelli hanno visto e taciuto. Era sera e si mettevano a posto le lame, per poi venderle il giorno successivo. Io le lucidavo, assieme a mia mamma, che quel giorno era stanca più del solito, non si era ancora cenato, faceva caldo.

Il papà aveva fame, ma non di brodo al sapore di pollo. Così le patate sul fuoco non le ha messe nessuno. La mamma ha urlato, lo ha pregato di lasciarla stare, di non farla rimanere con il ventre gonfio un’altra volta, di lasciar rinsecchire al fuoco il suo corpo emaciato. L’ho sentita pregare di prendersi un amante, come fanno tutti i mariti quando le mogli iniziano a invecchiare. Ma il papà le ha dato una sberla forte sulla guancia e io mi sono nascosta sotto il tavolo. Ho sentito dei colpi forti, la mamma urlava, i miei fratelli sono usciti dalla bottega. Non era la prima volta, per me. Conoscevo gli assalti del mio babbo, sapevo cosa succedeva dopo. Poi la mamma imprecava, si lagnava, si metteva a posto la gonna e metteva le verdure sul fuoco.

Ma quella sera non è andata così. Perché c’era una lama ancora sul tavolo e la mamma l’ha presa, ha affondato nel corpo di mio padre, il sangue è schizzato fin sotto il tavolo e mi ha sporcato la fronte.

Il coltello è caduto per terra, io l’ho afferrato, la mamma ha abbassato la gonna e mi ha guardato, con la solita occhiata di delusione.

Quando sono arrivati i gendarmi lei tremava e gemeva, accanto al fuoco, io stavo ancora col coltello in mano, mi hanno guardata e hanno fatto i loro conti.

Mio padre giaceva morto stecchito sul tavolo di lavoro dove per anni si era piegato a favore dei coltelli.

Io non ho detto nulla, mi hanno guardato le mani insanguinate e mi hanno incatenata.

La mamma si è girata verso la fiamma del fuoco.

Si fa notte su questa pietra, che da domani canterà il mio nome.

Che sciocca a commuovermi, ora, la pietra potrà dire solo Pinina, perché nessuno si è mai degnato di darmi un nome, la mamma mi ha chiamato sempre Pinina e Pinina forse sarei rimasta, la figlia dell’arrotino, un po’ rachitica, nata nel sottoscala di Piazza Pestalozzi.

Però che fortuna avere una prigione da dove si vedono le stelle e una pietra così silenziosa da saper accogliere la verità.

La mamma passa, ora che è buio, mi riempie le guance di lacrime e chiede scusa sottovoce, così che solo il masso su cui sono seduta può sentire.

Non ho mai parlato

Vorrei dirle qualcosa, ma io non ho mai parlato, sono muta dalla nascita, non potrei difendermi neanche volendo, la voce non mi è mai uscita, altri hanno parlato per me.

Allora provo ad accarezzarla, ma ho le braccia legate, la testa imprigionata in questa gogna che è il capolinea della mia avventura umana.

Ma se potessi parlare le direi: «Hai fatto bene a difendere la tua libertà, nessuno lo avrebbe capito, hai agito in maniera giusta, ti sei solo difesa, non eri oggetto da contendere».

Domani morirò in quella piazza che mi ha visto nascere, con la testa che ruzzolerà sul porfido e nelle labbra le parole che non ho potuto pronunciare davanti al volto distrutto di una madre ribelle:

«Io ti perdono».

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