Viva la poesia civile che nessuno ascolta

L’impegno dei poeti non è finito con Pasolini anche se oggi non fanno più opinione . Eppure c’è più che mai bisogno di voci libere: l’appello di un maestro ai media e ai giovani

“Civilissimo”, edito da Scheiwiller nel 1958 (poi ripreso in “Pensieri elementari”, Mondadori 1961) è un titolo indicativo e programmatico di Nelo Risi, il poeta milanese (1920-2015) che sempre è stato definito autore civile e pariniano. In quei termini di acuta ricerca di presenza attiva ed espressiva nel contesto e nel variare dei tempi, Risi si è in prevalenza mosso anche in seguito, basti pensare a opere come “Dentro la sostanza” (1965) e all’imprescindibile “Di certe cose” (1970), che ci offre, mirabilmente e con anticipo, il suono e il colore di un’epoca in vistoso cambiamento. Ho sempre in mente versi come quelli in cui Risi ci dice “siamo noi gli ambigui pacchi di imballaggio / confezionati nell’era dei consumi”.

Poesia civile, dunque, e come tale proposta in modo nettamente esplicito da un autore che è stato un grande stilista, sia pure, per sua ammissione, “dell’usuale”, e quindi in posizione decisamente antiretorica. Ma oggi, come possiamo rapportarci con questo genere letterario? Il centenario, che è caduto quest’anno, dalla nascita di Pier Paolo Pasolini - che è stato esplicitamente, anche, poeta civile - ha riproposto autorevolmente la possibilità di un genere che, in fondo, era da tempo trascurato. Ma va considerato che in un’epoca ormai lontana, la sua, l’impegno in quel senso era ben diffuso. Lo stesso neorealismo - pensiamo a una figura essenziale come Rocco Scotellaro - ne era stato portatore, e come non riandare a un autore come Franco Fortini?

Precedenti illustri

In ogni caso si era trattato di una serie di possibili declinazioni aperte di un genere illustre e la mia memoria mi porta per esempio a Giancarlo Majorino e alla sua potente testimonianza in questo senso, fino ai documenti poetici sulla contestazione giovanile di “Equilibrio in pezzi” (1971). E il discorso potrebbe allargarsi a Giovanni Raboni e a suoi versi tra la plaquette “Economia della paura” (1971) fino al riassuntivo “Cadenza d’inganno” (1975).

Pubblica presenza

Ma veniamo a tempi più recenti e all’idea di poesia civile di questi ultimi decenni. In effetti, la tensione in questo senso si è nettamente attenuata, tanto che l’idea della proposta si è venuta quasi azzerando, nonostante la storia non ne abbia certo offerto minori occasioni. Il poeta si è venuto in buona parte sottraendo a una possibilità di interpretazione critica del reale che esuli dal contesto della sua diretta esperienza, anche perché - sarebbe impossibile negarlo - nei suoi confronti se ne è di moltissimo attenuata l’attesa. Intendo dire che il valore di pubblica presenza del poeta, rispetto ai fatti rilevanti del tempo in cui si trova a vivere, si è ridotto al minimo, proprio a causa della sostanziale pubblica emarginazione del suo ruolo e della sua figura pubblica.

Tornando al tempo dello stesso Pasolini (ricordiamo che morì nell’ormai lontanissimo 1975), ci troviamo di fronte a un mondo che poteva comunque ospitare in tutta evidenza, sulle pagine di un quotidiano a larga diffusione, il parere tutt’altro che prevedibile di un intellettuale, di uno scrittore e poeta. Oggi, nel trionfo di una globalizzata “società dello spettacolo” (titolo, occorre sempre ricordarlo, di un libro di Guy Debord del 1967), è più facile trovare, in sedi anche autorevoli, i commenti (irrilevanti, in genere) di facce da tv o di altri pubblici personaggi del quotidiano e squallido circo mediatico. Il poeta, va pur detto, da parte sua si è adeguato passivamente al nuovo corso e del resto ben poco potrebbe fare per modificarlo. Potrebbe però - non obbligatoriamente, s’intende e secondo il proprio senso della poesia - quanto meno proporre nelle opere, per quanto circolanti in una nicchia forzatamente molto ridotta, il proprio reagire nella parola a quanto accade e dalle cui notizie siamo circondati ora per ora. Ma i media stessi dovrebbero cercare nell’opinione dei poeti un modo per meglio leggere la complessità del presente e dei mutamenti d’epoca che viviamo, nella consapevolezza che, appunto, una voce libera e insolita, estranea alla banalità e al kitsch del varietà totale dominante, potrebbe meglio orientare chi non può accontentarsi della chiacchiera.

La raccolta

Tempo fa era sorto un settimanale, legato al quotidiano “la Stampa”, diretto da Cesare Martinetti (che ancora ringrazio dell’iniziativa): “Origami”. Una pubblicazione ogni volta tematica alla quale ero stato gentilmente invitato a collaborare in una forma originale, ma per me stimolante: scrivere settimanalmente una poesia sul tema (d’attualità) del numero in uscita. Un impegno che avevo accolto con entusiasmo, anche perché ho sempre creduto in una cosa molto semplice: se esiste una committenza (e la storia, in tutte le arti, ne è felicemente colma) vuol dire che siamo in un contesto sociale che riconosce il valore e il senso necessario di un’arte e dunque di un artista a cui questa stessa società si rivolge chiedendogli un’opera. Poi, purtroppo, “Origami” dovette cessare le pubblicazioni, ma io ne avevo conservato i testi scritti e pubblicati, e quando, per il premio Vercelli, felicemente e controtendenza dedicato alla poesia civile, Roberto Cicala mi aveva chiesto una raccolta di testi poetici in quel senso, ho avuto l’occasione di riprenderli e riorganizzarli in un libro che considero un episodio per me importante e un incoraggiamento da seguire per un genere letterario di cui si ha gran bisogno. Soprattutto per arrivare a una lettura del reale in cui siamo immersi meno approssimativa e superficiale di quanto in genere - con incongrua enfasi - ci venga ormai proposto.

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