Dal moscerino della frutta un aiuto contro l’autismo

Lo studio La ricercatrice Claudia Bagni: «Informazioni importanti sulle conseguenze della mutazione di alcuni geni». Il tutto grazie allos tudio della “Drosophila melanogaster”

Da più di cento anni è un valido alleato dei ricercatori per studiare processi biologici fondamentali. La Drosophila melanogaster, universalmente conosciuto come il “moscerino della frutta”, è una delle specie più studiate della storia della biologia e della medicina e recentemente utilizzata anche nell’ambito delle indagini sull’autismo, con l’obiettivo di comprendere meccanismi e individuare futuri bersagli terapeutici.

I risultati di queste indagini sono stati presentati nei giorni scorsi a Como in occasione della terza edizione di Italy at Insar, workshop organizzato dalla Fondazione Vsm di Villa Santa Maria con il patrocinio della Fondazione Alessandro Volta, che ha riunito il fronte avanzato degli specialisti impegnati nell’ambito dell’autismo.

Oltre venti medici e ricercatori specializzati in Neuropsichiatria infantile, Biologia, Psicologia, Epidemiologia, Fisioterapia, Fisica, Intelligenza artificiale, Psichiatria, Logopedia e Linguistica hanno condiviso informazioni ed esperienze con l’obiettivo di favorire collegamenti laterali che possano promuovere un salto di qualità nella comprensione e nella risposta ai disturbi dello spettro autistico (Asd).

Le basi biologiche

Tanti i temi trattati, incluso il ruolo dei biomarcatori (livello di molecole o parametri diagnostici oggettivi che indicano lo stato biologico dell’individuo/paziente) per lo sviluppo di una medicina sempre più personalizzata, come conferma la professoressa Claudia Bagni, Vice-Dean per la ricerca e l’innovazione presso la facoltà di Biologia e Medicina dell’Università di Losanna e docente all’Università di Roma Tor Vergata. La professoressa da oltre venti anni studia le basi biologiche di disturbi del neurosviluppo come l’autismo e della sindrome dell’X fragile (Fxs) e ha contribuito, con il suo team, alla scoperta di meccanismi molecolari che agiscono a livello delle sinapsi, i punti di comunicazione tra le cellule del cervello.

«Sono state due giornate importanti per i ricercatori di base e per i clinici – dice Claudia Bagni –: i lavori si sono svolti in un’atmosfera di grande scambio ed apertura. Sono stati discussi i traguardi ottenuti ad oggi e l’importanza di aumentare le conoscenze, ancora molto limitate in questo campo. È necessario individuare dove e perché nel cervello dei soggetti con disturbi dello spettro autistico ci siano alcune disfunzioni, per poter poi arrivare a una terapia. Siamo consapevoli che la maggior parte dei trial clinici non vanno purtroppo a buon fine. Per l’autismo non ci sono cure: solo un continuum di consapevolezza, ricerca e conoscenza ci permetterà di sviluppare terapie adeguate per un disturbo cosi complesso che rimane – ad oggi – ancora un grande mistero».

Strategie sperimentali

Fondamentale, per la professoressa, il confronto tra clinici e ricercatori, che è emerso in maniera forte in queste due giornate. Eventi di questo tipo, infatti, permettono di affrontare il tema attraverso casi clinici, con un occhio attento alla complessità dei fenotipi, e cioè alle caratteristiche morfologiche e funzionali di un organismo, sia dal punto di vista genetico, sia ambientale.

«Un bambino affetto da autismo – aggiunge – non va preso in esame solo per questo disturbo, ma bisogna sempre integrarlo nella valutazione del suo ambiente, in primis la sua famiglia, l’educazione che riceve, la nutrizione. Ci sono tante componenti che aiutano il biologo a disegnare una strategia sperimentale per comprendere sempre meglio il contributo che l’interazione tra geni e ambiente apporta ai disturbi del neurosviluppo». Ogni individuo, infatti, è differente dall’altro e proprio su questo punto è importante concentrare gli studi, sia per quanto riguarda l’autismo, sia per la sindrome dell’X fragile, una condizione genetica ereditaria che comporta disabilità cognitiva, problemi di apprendimento e relazionali.

«Anche nel caso della sindrome dell’X fragile causata da un singolo gene – prosegue Bagni – si presenta la tematica dell’eterogeneità del fenotipo clinico e comportamentale. Se da una parte si ritrovano caratteristiche comuni, dall’altra ogni singolo individuo ha in sé caratteristiche diverse dagli altri. È per questo che i “biomarcatori” giocano un ruolo importante, consentendo di andare verso una medicina personalizzata». Importante alleato della ricerca, come ha spiegato la professoressa in occasione della sua lettura magistrale “Molecular Mechanisms of Sociability and Flexibility in Autism and Fragile X Syndrome”, il moscerino della frutta. Questo piccolo insetto di tre millimetri è un modello per studiare i processi biologici fondamentali.

Simile ai mammiferi

«Può sembrare un organismo modello lontanissimo dall’uomo – aggiunge – in realtà il 75% dei geni che causano una malattia nell’uomo sono conservati nel moscerino della frutta. È un organismo che ha comportamenti simili a molti mammiferi, incluso l’uomo. Per questo il moscerino ci consente di condurre ricerche su tematiche prettamente umane, nonostante sia un organismo estremamente semplice. È da ricordare che gli studi su Drosophila sono valsi ad oggi 6 premi Nobel per la medicina. Mutazioni in alcuni geni che nell’uomo comportano un rischio per l’autismo, causano nel moscerino deficit nella socializzazione come il corteggiamento, una iperattività notturna con disturbi del sonno e ridotta flessibilità nell’apprendere alcune strategie».

Lo studio comportamentale dei moscerini della frutta ha permesso ai ricercatori del team Bagni di comprendere un meccanismo legato al metabolismo cellulare per l’interazione sociale. «Abbiamo recentemente caratterizzato dei geni nel moscerino – spiega ancora – che sono altamente conservati nell’uomo e sono associati all’autismo. Tramite questo modello biologico che permette di operare su grandi numeri realizzando degli “screening genetici” abbiamo identificato una molecola, conservata e con ruolo biologico simile nel modello murino (topo) e nell’uomo, che potrebbe avere in futuro un impatto importante in termini di terapie». Lo studio è stato pubblicato nel 2020 sulla rivista Cell e la ricercatrice non nasconde la speranza di arrivare al più presto a questo obiettivo

Non solo. «Come ricercatori nel campo biomedico dobbiamo cercare di coinvolgere le famiglie che vivono in prima persona le problematiche dovute a deficit del neurosviluppo dei loro figli» sottolinea Bagni.

«Un altro messaggio importante, risultato di queste due giornate stimolanti coordinate dal professor Enzo Grossi (direttore scientifico della Fondazione Vsm) è la presenza in Italia di una comunità fortissima di clinici che lavora sull’autismo con interessi e strategie complementari».

Quanto ai numerosi studi condotti da Claudia Bagni negli anni, sia in Italia che all’estero, si sono concentrati anche sul trovare collegamenti tra aspetti apparentemente lontani tra loro. Tra questi, il possibile collegamento tra la sindrome dell’X fragile ed il cancro. «Lo studio è nato più di dieci anni fa – racconta – da una curiosità maturata da dati sperimentali in cui alcune evidenze sparse suggerivano una presenza “inattesa” di una proteina (Fmrp), assente nella sindrome X fragile, in tumori aggressivi ». I primi risultati sono stati pubblicati nel 2013 sulla rivista Em Bo Molecular Medicine, mettendo in rilievo «che c’era una ridotta incidenza di tumore al senso in donne con l’X fragile».

La prevenzione dei tumori

Da qui l’inizio di collaborazioni sempre più intense con i colleghi clinici in diversi ospedali italiani ed esteri per studiare la correlazione tra l’X fragile ed il tumore del colon o il tumore cerebrale come il glioblastoma.

«A partire da dati clinici, con i nostri studi in modelli biologici abbiamo spiegato come alti livelli di Fmrp corrispondono a una maggiore aggressività tumorale e come, nel caso di individui con Fxs ci sia una minore incidenza di alcuni tumori, come quello al seno, oppure una minore invasività delle cellule tumorali che non abbiano questa proteina».

Sebbene il disturbo dello spettro autistico e il cancro possano sembrare del tutto non correlati, in realtà c’è una quantità significativa di sovrapposizione tra le componenti genetiche associate a ciascuna condizione. Sono chiaramente necessari ulteriori studi per trarre conclusioni e per future terapie.

Ma sono tante le ricerche condotte e in fase di aggiornamento continuo e tra queste anche indagini che dimostrano come una non corretta processo di sintesi delle proteine, i “mattoni delle nostre cellule”, è correlato con la severità dell’autismo. Questo può facilitare in futuro l’identificazione di terapie personalizzate che tengano in considerazione, ancora una volta, del fenotipo molecolare e clinico del paziente.

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