Colombi (UILPA). In Europa gli stipendi degli statali aumentano dappertutto tranne che in Italia

Da giorni la stampa dà notizia degli aumenti concessi ai pubblici dipendenti per fronteggiare la perdita di potere d’acquisto dei salari a causa dell’inflazione galoppante. Solo che non riguardano l’Italia, ma gli altri Paesi europei.

E così apprendiamo che la Germania si appresta ad aumentare di un 5% netto gli stipendi degli statali, la Francia ha già concesso aumenti importanti nel 2022 e ne ha appena promessi altri, mentre in Spagna è stato raggiunto da tempo un accordo con i sindacati che prevede un incremento del 9,5% in tre anni e in Austria da gennaio gli stipendi sono aumentati di oltre il 7%.

Da noi invece è tutto fermo, perché per i cervelloni di Confindustria e dei loro sodali al governo del Paese c’è il rischio di alimentare la spirale salari-inflazione. Nel resto d’Europa la spirale non preoccupa e a quanto pare il pericolo esiste solo in Italia. Si vede che in Germania, in Francia, in Spagna e in Austria non hanno economisti bravi come i nostri.

Eravamo abituati a sentirci ripetere che le riforme si devono fare anche quando non piacciono, perché… “Ce lo chiede l’Europa”. Abbiamo perso il conto di quanti interventi sulla Pubblica Amministrazione sono stati approvati negli ultimi vent’anni per soddisfare le richieste di Bruxelles: formule astruse per misurare la performance, abbattimento programmato dei livelli occupazionali, tagli devastanti alle spese delle amministrazioni, blocchi prolungati dei rinnovi contrattuali, marginalizzazione del sindacato, tetti alle spese per il personale, stravolgimento delle regole previdenziali e chiudiamo qui l’elenco per carità di patria.

Ma ecco che, di colpo, “Ce lo chiede l’Europa” è scomparso. Quando si tratta di adeguare gli stipendi a una dinamica dei prezzi che distrugge i livelli retributivi e la qualità della vita dei lavoratori adeguarsi all’Europa non è più necessario. E l’Italia ritorna autarchica e sovranista come ai bei tempi che furono.

La spiegazione generale di questo fenomeno è la seguente: l’Italia è il Paese-laboratorio nel quale sperimentare le più violente politiche economiche neoliberiste. Politiche che prevedono l’impoverimento progressivo dei lavoratori e l’arricchimento smisurato di una élite economica. Uno dei tanti giornali al servizio di questa élite, il Sole24Ore, “stima” (le virgolette sono d’obbligo) che servirebbero 32 miliardi per adeguare gli stipendi pubblici all’inflazione. Manco a parlarne. È una spesa che ovviamente il Paese non può permettersi.

Ma i conti sui costi dei rinnovi contrattuali non si facevano al Ministero dell’Economia? Da quando è stata appaltata a Confindustria la quantificazione della spesa per i CCNL dei comparti pubblici? Nell’attesa di una risposta preghiamo il ministro Zangrillo di non fidarsi delle cifre sparate sulle pagine di qualche giornale padronale interessato a bloccare i rinnovi del settore pubblico per timore che possano fare da traino a quelli del lavoro privato.

Sono giochini vecchi quanto il mondo che puntualmente si ripropongono ad ogni nuova tornata contrattuale. I conti veri sui costi dei rinnovi contrattuali nei comparti della P.A. facciamoli ai tavoli delle trattative ufficiali. Si apra dunque al più presto un confronto sugli obiettivi contrattuali da raggiungere in termini di difesa dei salari, sui tempi di realizzazione, sulla quantificazione reale dei costi e sui finanziamenti che il governo intende mettere a disposizione.

È così che stanno facendo nel resto d’Europa. Ed è così che dobbiamo fare da noi. Anche se l’Europa dimentica di chiedercelo.

 

Sandro Colombi, Segretario generale UIL Pubblica Amministrazione

Roma, 28 aprile 2023

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