Il male che uccide i neuroni: siamo a rischio già a 45 anni

Approfondimento Cambiamenti nella personalità e difficoltà di linguaggio sono alcuni dei sintomi della demenza frontotemporale. A differenza dell’Alzheimer colpisce altre aree del cervello. Non esistono, oggi, terapie in grado di contrastarla

Cambiamenti nella personalità e difficoltà di linguaggio o di comprensione sono alcuni dei sintomi tipici della demenza frontotemporale. Questa malattia degenerativa ha un esordio in età più giovanile rispetto ad altre forme di demenza. Recentemente la famiglia dell’attore americano Bruce Willis, che da tempo si è ritirato dalla scena pubblica, ha annunciato che all’uomo è stata diagnosticata proprio questa patologia.

«La demenza frontotemporale – spiega la professoressa Cecilia Perin, responsabile dell’Unità operativa clinicizzata di Riabilitazione specialistica delle gravi cerebrolesioni agli Istituti Clinici Zucchi di Carate Brianza e professore in Medicina riabilitativa presso l’Università degli studi di Milano Bicocca – è una malattia degenerativa e proprio per questo comporta la morte progressiva dei neuroni. A oggi, parlando di demenze, non conosciamo la causa di questo processo degenerativo, ma la ricerca prosegue su più direzioni, da quella genetica, a quella infiammatoria o immunitaria».

I neuroni sono una parte preziosa del nostro cervello in quanto, come ricorda la professoressa, sono i costituenti della sostanza che ci permette di compiere diverse azioni come pensare, muoverci, in quanto il cervello governa tutto il resto. « I neuroni che muoiono a causa di una forma di demenza – prosegue Perin – sono quelli delle aree del cervello che si occupano di azioni complesse e allo stesso tempo preziose in quanto riguardano il pensiero, la modalità di azione e di decisione, ma anche la parola».

L’esordio della malattia

Nonostante una maggiore informazione e sensibilizzazione ancora oggi nella popolazione generale l’idea di demenza è associata esclusivamente all’Alzheimer, senza dubbio la forma più diffusa, ma non è l’unica. Di conseguenza l’unico campanello di allarme che viene preso in considerazione è quello legato alla perdita progressiva di memoria. «Nella demenza frontotemporale – precisa la professoressa – le aree colpite sono principalmente altre. In questo caso i neuroni che vanno a morire sono legati alla corteccia frontale e a quella temporale anteriore. Il lobo temporale, ad esempio, è la parte del cervello che regola funzioni fondamentali come la parola, il linguaggio, la memoria, ma anche l’udito. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che è vero che udiamo con le orecchie ma è il cervello che decifra quello che sentiamo».

A differenza delle altre demenze, che affliggono generalmente persone over 65 anni, la demenza frontotemporale tende a manifestarsi in persone più giovani. La maggior parte dei casi accertati e cioè diagnosticati riguarda persone tra i 45 ed i 65 anni di età, sebbene possa manifestarsi anche in persone più giovani o più anziane. Come altre forme di demenza, quella frontotemporale, tende a progredire e a diventare più grave con il passare del tempo.

La diagnosi non è semplice visto che i sintomi possono essere confusi per altre patologie come, ad esempio, la depressione, in quanto le manifestazioni possono essere legate a un cambiamento della personalità. «Più che con disturbi della memoria – conferma Perin – questa malattia può esordire con disturbi dell’umore con cambiamenti della personalità e del comportamento. In altri casi, invece, con problemi nel parlare e nella comprensione del linguaggio. Con il passare del tempo poi i sintomi si sovrappongono e purtroppo la situazione tende progressivamente a peggiorare».

Tra i sintomi ci sono così comparsa di apatia, mancanza di iniziativa, comportamenti impulsivi o inappropriati, ma anche cambiamenti progressivi del linguaggio, parlare lentamente, far fatica a pronunciare correttamente una parola, mettere le parole in ordine sbagliato in una frase, usare una parola per un’altra, avere difficoltà nella comprensione delle frasi udite o lette, incapacità a leggere e a scrivere.

Le attività mentali

Con il tempo insorgono anche problemi con le abilità mentali, distrarsi facilmente, avere difficoltà nella pianificazione e nell’organizzazione delle attività. I problemi legati alla sfera della memoria, come detto, tendono a insorgere più tardi rispetto ad altre forme di demenza come, ad esempio, la malattia di Alzheimer. La diagnosi di questa malattia parte con un’attenta anamnesi e da alcuni esami neurologici per escludere, ad esempio, la presenza di un’ischemia o di altre patologie. «Vengono prescritti degli esami del sangue – dice ancora la professoressa – per verificare il corretto funzionamento della tiroide, la carenza di vitamine o la presenza di possibili infiammazioni o infezioni. Contemporaneamente vengono eseguiti dei test neuropsicologici ed accertamenti neuroradiologici standard come la Risonanza magnetica in grado di evidenziare una atrofia a livelli dei lobi frontali e temporali anteriori. Se la diagnosi non viene confermata si monitora l’andamento del paziente nel tempo». Tra le analisi che possono essere eseguite per determinare più precisamente di quale demenza si tratti (demenza fronto-temporale, malattia di Alzheimer, demenza a Corpi di Lewi, demenza su base vascolare, degenerazione cortico-basale), vi sono quelle relative alla determinazione di alcune sostanze presenti nel liquido cerebrospinale e nel sangue, tra queste la proteina Tau e la beta amiloide e (comunemente alterata nell’Alzheimer). Altro esame diagnostico importante sono la Pet o la Spect cerebrale che consentono di vedere quali zone del cervello hanno un metabolismo più basso rispetto alle altre. «Se hanno un metabolismo più basso – precisa Perin – significa che funzionano meno. In base all’area interessata da questo malfunzionamento oggi siamo in grado di fare una diagnosi più precisa di demenza. Purtroppo, ancora oggi, a una diagnosi certa non corrisponde una terapia in grado di curare la malattia».

Il ruolo del caregiver

Gli unici farmaci disponibili sono quelli utilizzati anche per l’Alzheimer e che dovrebbero consentire di ritardare, di circa sei mesi, il peggioramento della demenza. «Questi farmaci però – aggiunge la specialista – non sembrano dare risultati per quanto riguarda la demenza frontotemporale. La presa in carico del paziente è però complessiva nel senso che da un lato si tenta un’attivazione cognitiva neuropsicologica, logopedica e di terapia occupazionale dall’altro si danno consigli e sostegno alla famiglia del paziente che deve e dovrà affrontare un percorso complesso».

Il caregiver oggi, infatti, è spesso un familiare e non è raro che i parenti corrano il rischio di sentirsi soli o isolati in quanto la maggior parte del tempo viene dedicata alla cura della persona con demenza. «È fondamentale non far sentire sole le famiglie – prosegue la professoressa – quindi la rete sul territorio deve essere un punto centrale in tema di demenze. Agli Istituti Clinici Zucchi abbiamo attivato una collaborazione con un’associazione dedicata (Felicementeseguilonda) e con i Servizi Sociali del Comune per garantire l’assistenza necessaria a pazienti e famiglie».

In termini di prevenzione la letteratura scientifica evidenzia come sani stili di vita possano contribuire a ritardare o scongiurare il rischio di demenza. «Più studi dimostrano come – conclude Perin – la dieta mediterranea e un’attività fisica costante, oltre a corretti stili di vita, sono in grado di abbassare i livelli di infiammazione cerebrale e quindi di ritardare l’insorgenza di demenza. Leggere e tenere il cervello in allenamento, inoltre, consente di costruire una riserva cognitiva. Maggiore questa è, migliore è la capacità della persona di reggere agli urti dell’invecchiamento cerebrale».

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