Como al bivio. Il consenso vale pure
una mensa?

Non siamo ancora alle mamme coraggio e neppure al “cacerolazo”, la rivolta delle pentole e delle padelle che anni fa fece rumore e non solo in Argentina. Eppure le mamme di Como si stanno facendo notare per la vigorosa protesta contro il progetto del Comune di chiudere gli attuali 17 centri di cottura per farne uno solo che fornisca i pasti a tutte le mense scolastiche.

La crisi e le sempre più ridotte risorse evidenziano come chi amministra paesi e città è chiamato a scegliere se aumentare le tasse o se razionalizzare e ridurre i servizi. Chi governa Como si chiederà oggi se il consenso vale pure una mensa.

Chi è entrato in lista e si è candidato alle elezioni avrà magari immaginato di poter indossare i panni dei politici che si vedono in tv. In breve ha dovuto dire addio ai sogni di gloria e si è trovato a gestire problemi concreti come trovare i soldi per asfaltare le strade e tagliare le erbacce. O addirittura come e cosa tagliare dei tanti rivoli della spesa comunale. Questa nuova dimensione della politica locale ha un risvolto positivo. Elimina gli spazi della demagogia e impone percorsi di rigore e di buon senso. Soprattutto esalta il ruolo vero della politica, fatto non di parole, ma di decisioni concrete.

Il caso delle mense a Como è uno di questi momenti fondamentali. Chi amministra deve scegliere cosa fare. E le sue decisioni incidono concretamente, a volte pesantemente, sulla vita dei cittadini. Ecco i dati del problema: il Comune di Como ha 17 centri di cottura (le cucine) per le mense scolastiche che servono 4.136 bambini nei diversi istituti e impiegano 70 addetti con contratto a tempo indeterminato e 44 con contratti a termine rinnovati di anno in anno. Due i nodi: il primo è che molti dei 17 centri di cottura non rispettano le norme Asl e della sicurezza per i Vigili del fuoco. Per l’adeguamento servono almeno 700mila euro. Il secondo è il costo per i 44 addetti a tempo determinato: la loro situazione non è più sostenibile e il Comune deve decidere se assumerli tutti a tempo indeterminato, aumentando quindi il costo del personale, oppure se riorganizzare il servizio facendo a meno di loro e dunque riducendo i costi fissi.

La decisione dell’amministrazione è contenuta nel bilancio che sarà discusso lunedì sera in Consiglio comunale e cioè soppressione dei 17 centri di cottura, servizio con una sola cucina nella scuola di via Isonzo che dovrebbe spostare le sue cinque classi a circa un chilometro di distanza in via Picchi e rinuncia ai 44 dipendenti con contratto a tempo determinato che non verrebbero riassunti. L’inizio dei lavori è previsto per settembre prossimo, l’avvio del nuovo sistema tra un anno esatto.

Davanti a questa proposta le mamme dei bambini di via Isonzo protestano perché si devono spostare e le altre madri protestano perché il cibo ai loro figli sarà portato con furgoncini e temono che la qualità si riduca notevolmente. Loro dicono che non si può tagliare un servizio così importante e che eventuali sacrifici vanno fatti su altre voci del bilancio comunale. Il vicesindaco Silvia Magni dinanzi alle loro proteste infervorate ha mostrato segni di cedimento. Il sindaco Mario Lucini invece è deciso ad andare avanti perché, dice, il problema va risolto anche a costo di scelte impopolari.

Cosa fare dunque? Cedere alle mamme, che legittimamente protestano oppure esercitare la responsabilità di decidere per il bene di tutti anche a costo di perdere le elezioni? Questa amministrazione in passato ha dimostrato fermezza e coraggio con l’allargamento della zona pedonale in centro, tenendo duro davanti alle proteste dei commercianti. L’assessore Daniela Gerosa ha resistito ai fischi e oggi si può dire che aveva ragione ragione lei. Oggi il dilemma si ripresenta: il consenso vale pure una mensa?

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