I morti sono
il nostro rimorso

Nell’ultima riga de La Famiglia Moskat - il romanzo fluviale, straziante e terribile che Isaac Singer ha scritto per raccontare lo sterminio non solo di un popolo, ma di una storia, dell’essenza stessa dell’idea di Europa come civiltà e contaminazione - alla domanda disperata dei suoi ultimi amici, che vagano terrorizzati in una Varsavia in fiamme su cui sta per abbattersi la distruzione nazista e gli chiedono se il Messia riuscirà a salvarli, Hertz Yanovar risponde così: “La morte è il Messia. Ecco la verità”.

In quel momento - nella chiusura scioccante e

magistrale di questi Buddenbrook della cultura yiddish - la morte è vista, dentro un solco profondo della filosofia chassidica, come catarsi definitiva, conquista della pace per una folla di anime che su questa terra la pace sembrano destinate a non trovarla mai. Certo, lì c’erano le armate di Hitler e quell’Olocausto simbolo dei mille altri che si sono succeduti e che si susseguono senza posa da quando l’uomo ha scritto per la prima volta il suo nome nel libro della vita. Ma in fondo, se ci pensiamo bene, è sempre un po’ così. I morti ci fanno paura perché sono il nostro futuro, la nostra proiezione, il nostro destino. Ma al contempo, quell’atmosfera inesprimibile che emana dai cimiteri, che tutti abbiamo affollato in questi giorni di ricorrenze, regala una sensazione di requie, di fine degli affanni, di annichilimento delle pulsioni. Finalmente riposerai in pace, non è così che si dice?

E ogni anno che passa, soprattutto nei paesi, quelli diventano luoghi sempre un po’ più familiari. C’è sempre qualche nuova faccia conosciuta, c’è sempre qualche volto nascosto tra i meandri della memoria che all’improvviso occhieggia da una tomba e ti ricorda che anche questa volta probabilmente hai sbagliato tutto. Dicono che sia la fine dell’anno il momento delle grandi promesse, dei grandi progetti, delle grandi svolte esistenziali (dall’anno prossimo mi impegnerò di più, dall’anno prossimo mi metterò a dieta, dall’anno prossimo inizierò finalmente a prendermi cura di me, dall’anno prossimo la farò vedere a quello là e gli strapperò quella promozione maledetta…), ma non è così. Il momento in cui uno, almeno per un attimo, riesce a parlare per davvero con se stesso è quando va a trovare, sempre che se lo ricordi, una persona cara, una persona che ci ha lasciato. E ogni volta sono schiaffi. Le parole mai dette, gli attimi fuggenti lasciati scioccamente fuggire, i rimorsi per le insensibilità, le meschinerie, le superficialità, il vuoto se non di riconoscenza certo di calore umano, il distacco, la distrazione, aggiungete voi tutto quello che vi sentite dentro, perché la lista dei rimorsi è lunga assai e così è ,né cambia stile, nonostante il fatto che uno abbia la nitidissima coscienza di essere stato inadeguato con quella persona e che ormai non c’è più modo di rimediare, perché il tempo con le sue fredde ali dei sepolcri spazzerà fin le rovine. Anche se però ci sono ancora le altre, di persone, e con quelle, almeno con quelle, si dovrebbe cercare di non sbagliare di nuovo, fino a quando ci sono ancora.

E invece niente. Niente di niente. Cambi i fiori, sistemi i vasi, scruti affranto quel volto che ti osserva stupito dalla lapide e ti prometti, ma per davvero, perché è in quei piccoli minuti fuori dal tempo che uno dà il meglio di sé, di essere almeno un po’ migliore e più saggio e più conscio che tutto passa, tu e le tue ridicole ambizioni e i tuoi risibili odi d’ufficio da travet di serie zeta e i tuoi herpes psicanalitici da fallito con l’uzzolo di twitter, le tue vendette da uomo vigliacco o da donna uterina, perché non c’è bisogno di aver letto Marco Aurelio per sapere con piena scienza e coscienza che fra cinquant’anni saremo tutti morti e sepolti e di noi non resterà nulla, né opere, figurarsi, né esempi preclari, né ricordi, né null’altro ancora. Ed è così, in effetti. Ma solo per un attimo, perché già un secondo dopo il gorgo della mente inizia a rimestare nel tritacarne dei rancori, dei livori, degli affanni, dei timori e dei tremori, delle trappole disseminate nel corso della giornata, e l’ “io” torna, implacabile, a spadroneggiare e io che faccio questo e io che dico quest’altro e io che architetto quest’altro ancora e io che scrivo mille volte la parola io e io e io e io e io, simbolo pagliaccesco e intollerabile della nostra melliflua natura e di uno spirito dei tempi che la parola “noi” l’ha sotterrata meglio di qualsiasi mastro becchino.

Però nella nostra esistenza non c’è solo la morte, ma - allegria - anche il dolore. Ma a quello ci si abitua. Vuol dire che siamo ancora vivi. Ed è utile. Il dolore è uno strumento di conoscenza. Il migliore. Gli esseri umani danno il meglio di sé quando soffrono. Perché capiscono. E ne capiscono l’universalità, la democratica livella che tutto schiaccia e annienta. C’è chi ne coglie il senso grazie al dono della fede, c’è chi lo fronteggia virile come le ginestre narrate da quello là, c’è chi lo vive come componente irrinunciabile del mistero dentro il quale siamo avvolti. Ma è solo da questa coscienza comunitaria che si può dare ordine al caos.

In una pagina indimenticabile de La Steppa, infatti, Anton Cechov (il più grande di tutti? sì, il più grande di tutti…) ricorda che a un certo punto al piccolo Egóruška sembra di sentire un canto e che sia l’erba della steppa sterminata a farlo: “Nella sua canzone, essa, mezzo morta, ormai spacciata, senza parole ma con voce lamentosa e sincera, persuadeva qualcuno di non essere colpevole di nulla, che il sole l’aveva bruciata ingiustamente, assicurava di nutrire un ardente desiderio di vivere, di esser ancora giovane e che sarebbe stata ancora bella se non fosse stato per la calura e la siccità; non aveva nessuna colpa, tuttavia chiedeva comunque perdono a qualcuno e giurava di aver un dolore insopportabile, di esser triste e di provar pena per se stessa”.

Ecco, tutti quanti abbiamo un dolore. Perché non possiamo condividerlo?

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