Informare con misura
Una scelta saggia

I grandi giornali americani hanno accuratamente evitato di pubblicare le immagini di Charlie Hebdo con le vignette su Maometto. Come interpretare questa scelta? Un’ abdicazione del principio di libertà d’espressione? Un’autocensura che ha il sapore di una resa rispetto alle pretese del «nemico»? Naturalmente le cose non stanno così, e sarebbe difficile pensarlo, visto che siamo di fronte ad un Paese, gli Stati Uniti, che hanno fatto della libertà uno dei principi costitutivi e inalienabili della propria identità. Ed è difficile pensarlo anche perché su altri piani, gli stessi Stati Uniti, non hanno fatto sconti nella lotta al fondamentalismo islamico. La durezza e l’intransigenza di alcune loro scelte hanno addirittura sollevato polemiche nel resto dell’Occidente (si veda la questione di Guantanamo). Perché allora quei grandi organi di stampa hanno rinunciato a quello che sembra essere un diritto fondante dell’informazione? Può essere una scelta giustamente prudenziale, per non esporre non solo le redazioni, ma anche l’intero Paese ad ulteriori provocazioni sanguinarie. Ma probabilmente il motivo vero è un altro: negli Usa vivono tra i sei e i sette milioni di musulmani, anche se il numero è approssimativo perché il Censimento americano impedisce di porre domande sull’appartenenza religiosa. La stragrande maggioranza di loro è perfettamente integrata nel Paese e spesso ricopre anche ruoli socialmente rilevanti. Sono quindi probabilmente lettori di quei giornali che hanno ritenuto di non pubblicare le immagini dei numeri di Charlie Hebdo con le vignette della discordia: pubblicarli avrebbe potuto essere letto come un’offesa verso quella minoranza di lettori che si ritengono in tutto americani e sono di fede musulmana. Gli stessi giornali però non hanno rinunciato al diritto-dovere di informare. Così hanno scelto la strada di descrivere negli articoli il contenuto delle vignette, in modo che tutti potessero rendersi conto di cosa si trattasse e giudicare se fossero realmente offensive o addirittura blasfeme.

Si potrebbe obiettare che questa prudenza entra in gioco solo nella relazione con i musulmani. E che altre fedi, cattolicesimo in primis, non godono degli stessi riguardi da parte degli organi di informazione. Osservazione vera, ma che deve tenere conto di alcuni fattori psicologici e culturali di contesto. L’Islam, come propria dottrina, ha sempre bandito la rappresentazione di Allah e del Profeta: non a caso nei Paesi musulmani la tradizione artistica non prevede immagini, né figure umane, ma solo decorazioni astratte. Il Cristianesimo, all’opposto, ha sempre fatto leva sulla rappresentabilità di Gesù e di Dio, stesso. Ha dato loro un volto, e ha lasciato che fossero la creatività, la libertà e la fede degli artisti a replicarli in infinite e spesso meravigliose varianti; queste immagini sono state spesso il tramite con cui ha comunicato agli uomini il fascino della sua proposta. Le immagini sono nel dna della cultura e dell’antropologia cristiana, non in quella dell’Islam. Quindi quando se ne fa un uso giudicato blasfemo, per i musulmani ne viene una sorta di offesa al quadrato. Della cosa si può discutere sin che si vuole, ma se circa un miliardo di persone al mondo ritengono oltraggioso della loro fede questo modo di rappresentarla, è un fatto che chi fa informazione deve tener presente.

I grandi vignettisti di Charlie Hebdo la pensavano diversamente, in quanto figli di una cultura laicissima e libertaria. Pensavano che la satira sia per natura una zona franca, uno spazio in cui è possibile e legittimo trasgredire queste tacite regole. Non è esattamente così, e ciò che da tanti è stata letta come satira, da molti altri invece è stata recepita come parodia di una propria appartenenza religiosa. «Est modus in rebus. Sun certi denique fines, Quos ultra citraque nequit consistere rectum», sentenziava il grande Orazio (un pagano!) nelle sue Satire. «C’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto». È una regola saggia che chi fa informazione dovrebbe tenere sempre presente.

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