Sconfitta su sconfitta
36 anni di Ticosa

Sono trascorsi quasi 36 anni. Il 3 ottobre del 1980 un telex spedito dalla Francia mise la parola fine alla più grande fabbrica tessile comasca. La Ticosa. Como quel giorno voltò dolorosamente pagina. Fu, simbolicamente, l’inizio di una straordinaria e radicale mutazione per una città che sino ad allora si era sviluppata soprattutto grazie alla sua industria. Ma fu anche l’avvio di una vicenda politico e amministrativa sciagurata.

Uno scandalo che ha succhiato una montagna di soldi della comunità senza rendere indietro alcunché. Un paradigma del fallimento della classe dirigente comasca incapace di trovare una sola chiave valida e concreta per trasformare un’area dismessa in un’opportunità di rilancio così come è avvenuto, nell’arco di qualche anno, in tanti altri centri, grandi e piccoli. Una ferita nell’orgoglio dei comaschi e anche un peso opprimente per il futuro perché ciò che è peggio, di questa brutta storia, è quel vago senso di disillusione che ha trasmesso alla comunità nel suo insieme. Al recupero della Ticosa non crede più nessuno tanto ci siamo abituati a considerare questa sorta di buco nero come una macchia che fa parte del naturale paesaggio urbano comasco.

E dire che la decisione di acquistare l’area, due anni dopo la chiusura della fabbrica, fu assunta dalla Giunta Spallino sì con grande travaglio ma con la convinzione che fosse un buon affare per Como, la soluzione migliore per mettere al riparo questa parte del centro innanzi tutto da interessi di natura speculativa.

Fu una scelta coraggiosa, pagata però a caro prezzo perché i 6 miliardi di lire costrinsero negli anni a fare i conti con un mutuo pesantissimo. Un grande sacrificio, il primo. Sul piano economico ce ne sono stati molti altri, l’ultimo, non ancora chiuso, è quello per la bonifica: sei milioni di euro e il conto è destinato a salire per attrezzare il contenitore a un contenuto su cui, ora, è tornato a gravare un enorme punto interrogativo.

Sul cosa farci, del resto, si è ipotizzato di tutto. I progetti più fantasiosi sono stati quelli dello stadio, di un parco divertimenti e di un acquario con le specie lariane. Si è parlato di un polo scolastico, a lungo si è lavorato sulla cittadella dell’artigianato, qualcuno ha sostenuto la scelta di un grande parco pubblico, altri di un incubatore di imprese. Sì, certo, c’è stato anche qualche contributo di alto livello - per esempio quello a suo tempo messo a punto dal cavalier Antonio Ratti con l’architetto Mario Bellini - ma nel complesso è sempre mancata, nella parte politica, chiarezza e profondità di propositi.

Hanno fallito i partiti della prima repubblica, lo stesso i tre sindaci eletti direttamente dai cittadini.

L’ultima puntata, ora, la sta scrivendo la giunta Lucini, a un passo dalla chiusura della trattativa per risolvere il contratto con Multi, la multinazionale che dieci anni fa si aggiudicò l’area con l’impegno di realizzare un nuovo quartiere. Ripartire da zero, per come si erano messe le cose, era forse una scelta inevitabile. Arrivarci a dieci mesi dalle elezioni è oggettivamente un’amara sconfitta, a prescindere dalle responsabilità dei singoli e dalle considerazioni di tipo politico. E ora prepariamoci, in campagna elettorale, su questo tema, i candidati sindaco giocheranno a chi la spara più grossa. Lasciamoli parlare ma non facciamoci incantare da nuove mirabolanti promesse. I fuochi artificiali del resto non portano bene, gli ultimi li sparò l’ex sindaco Stefano Bruni per celebrare la demolizione del vecchio Corpo a C ed è finita come sappiamo.

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