I 5 Stelle e la continua
voglia di novità

Alla fine si muore sempre democristiani. Lezione immarcescibile della politica che si è manifestata anche alla fine degli Stati Generali del Movimento Cinque Stelle. Una kermesse attesa anche per leggere nei fondi del caffè di un governo sempre più in corto circuito, ma passata un po’ in cavalleria anche a causa del Covid che ormai, salvo rare eccezioni, si prende sempre primi pagine dei quotidiani e titoli di testa dei Tg.

Non solo per questa ragione, però, il “congresso” (chiamiamolo con il suo nome) dei post grillini non ha suscitato un grande pathos. Ormai, in una società sempre affamata di novità, chi non lo è più ottiene poca attenzione. E poi per Di Maio, Di Battista, Crimi e compagnia stellante sembra valere, ma al contrario, il celebre motto andreottiano del potere che logora chi non ce l’ha. Loro si sono invece consunti proprio dopo aver messo piede nei palazzi romani, a seguito della sfolgorante e forse irripetibile performance elettorale di un ormai remoto 2018, che li ha portati a prendere parte come socio di maggioranza in due governi, di coalizione con la Lega prima e oggi assieme a Pd, Renziani e Leu. Sarà stata l’impossibilità di ballare da soli che ha scolorato i Cinque Stelle, tutti: da Giggino in grisaglia a capo delle feluche allo stesso Dibba che a furia di fare quello che sta sempre fuori per vedere l’effetto che fa, ha stufato. Ha detto bene Conte, quando si governa bisogna farsene una ragione e cambiare. Anche se, andrebbe aggiunto, si pagano dei prezzi finora, ma si sa per quanto, risparmiati al premier ma versati in termini di voti dai pentastellati.

E poiché Roma oggi interpreta la parte dell’antica Grecia conquistata che conquistò i conquistatori, ecco spiegato il cammino, sia pure accidentato e sofferto del movimento Cinque Stelle oggi “partito”, al termine di un “congresso” che ha avuto poco da invidiare a quelle assise democristiani con i sofismi, i distinguo il dico e non dico, i sorrisi di circostanza e gli stiletti pronti sotto il tavolo. Addio “vaffa day” e, forse, pure al cagliostrico laboratorio digitale di Casaleggio, per la democrazia diretta se ne parlerà un’altra volta.

Il “nuovo” partito sarebbe addirittura in cerca di una famiglia politica europea disposta ad adottarlo. Si parla dei liberali o dei socialisti, due tendenze che covano e convivono dentro la creatura di Beppe Grillo fin dalla fondazione. Ci sarà una direzione pletorica e una segreteria più ristretta perché la guida sarà, per ora, collegiale in modo da evitare le spinte scissioniste di chi continua a vedere come il fumo negli occhi l’alleanza poco santificata con il Pd. I problemi sono i rapporti ridotti al lumicino tra Di Maio, di fatto il vero capo politico, e il premier Conte e la necessità di salvare più strapuntini possibili quando si tornerà alle urne. Altro che aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. L’ultima raffica del vecchio movimentismo è stata la battaglia, vinta, sul taglio di onorevoli e senatori. Resta da capire quanto varrà l’appeal del partito su un elettorato sempre a caccia di novità eclatanti.

Perché diciamolo, la colpa di quanto accade in politica è anche un po’ nostra. Di una società che continua a invocare il “cambiamento” senza magari sapere bene cosa sia. Certo, tutti vorremmo migliorare le nostre condizioni di vita e questa, dopo la fine delle ideologie novecentesche, è diventata la molla principale per spingerci al voto. E tutti ci promettono tempi migliori, anche se alla fine non è che dipenda solo da loro. Forse sta qui anche la crisi della democrazia rappresentativa, ma non è detto, anzi, che l’alternativa sia quella diretta, altrimenti anche in Cinque Stelle non starebbero vivendo queste ambasce che rischiano di avvicinarli a un’altra grande massima andreottiana quella per cui è meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Non c’è nulla da fare, si finisce sempre per morire democristiani.

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