Zingaretti e il vulnus
che frena il Pd

Anche gli Zingaretti nel loro piccolo… In questo caso nel senso di Nicola, segretario del Pd con avviso di sfratto firmato Giorgio Gori, sindaco di Bergamo smanioso di una nuova leadership, magari la sua o quella del presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, per il partito del Nazareno, nome forse non casuale vista la specialità della casa nella crocifissione dei segretari. Tutti sono passati da un tiepido osanna a un cruento crucifige.

O perché troppo poco carismatici, oppure il contrario. Non c’è stato scampo per nessuno. Forse la causa, il vulnus sta proprio nella natura del partito democratico che, nell’atto di nascita, si poneva il non poco ambizioso obiettivo di fondere due culture politiche fin lì antagoniste e in parte antitetiche: quella del vecchio Pci e della sinistra democristiana, entrambe uscite quasi indenni dal tritacarne di Tangentopoli. Forse, e andrebbe scritto con un nutrito contorno di punti interrogativi, l’unico che avrebbe potuto riuscire nell’impresa titanica sarebbe stato Romano Prodi, sufficientemente determinato quando serve e duttile in altre circostanze. Però, e questo è il paradosso dei paradossi, al Professore non è mai stato consentito di entrare nella stanza dei bottoni del Pd. Magari non è proprio un caso. La storia, travagliata, di un partito che, in ogni caso è sempre riuscito a mantenere una quota di potere certo superiore alla sua rappresentatività, è sempre stata segnata da lotte intestine che determinano un immobilismo inevitabile. Attorno al quale si coagulano i voti di tanti orfani dei vecchi partiti della Prima Repubblica che non rinunciano a esercitare il proprio diritto ma, nello stesso tempo, percepiscono come alieni i tanti partiti nati nella Seconda e nella Terza. Della restante massa critica che gravitava attorno al Pci e alla sinistra Dc, una parte non molto rilevante si è indirizzata verso altre parrocchie, cambiandole come le cravatte, oppure ha salutato la compagnia e si è esiliata in una triste astensione. Questo spiega l’andamento elettorale più o meno costante del Partito democratico. L’eccezione, irripetibile, del 40% e rotti dell’epoca Renzi, è stata determinata più dagli 80 euro che non dalla convinzione nei programmi e nella leadership, tant’è che è rimasta una meteora.

Adesso si dice che i dem, nei sondaggi, si stiano avvicinando alla Lega, segnalata come primo partito, e perciò non ha senso contestare il segretario. La verità però è il contrario: è il Carroccio, in caduta con la guida di Salvini sempre più incerta, ad avvicinarsi al Pd. In quanto a Zingaretti (Nicola), almeno fino a un paio di giorni fa, qualcuno ricorda una qualche iniziativa politica che non sia stata andare di malgarbo al traino di Conte che si è preso tutta la scena? Purtroppo del leader piddino si rammenta solo l’annuncio con cui comunicava di aver contratto il virus, da cui per fortuna, e non senza fatica, è poi guarito. Giusto qualche giorno fa, forse perché incalzato da Gori in maniera palese e forse anche da Bonaccini e Beppe Sala in modo più occulto, Zinga ha preso cappello e ha attaccato gli alleati sulle Regionali. Qual è il senso, si è chiesto, di marciare al governo più o meno uniti per poi finire con il colpire divisi alle elezioni con il rischio di concedere una prateria a Salvini? Interrogativo che rischia di essere il tormentone dell’estate, poiché si voterà a settembre. E sarà una consultazione cruciale: l’ultima curva che separa la maggioranza giallorossa al traguardo delle elezioni per il successore di Mattarella, l’unica vera posta in palio. Una poltrona che, stando alla logica, potrebbe toccare, e sarebbe l’ennesima, anche a un esponente Pd, magari D’Alema? Se non a Conte, uomo di tutti e perciò di nessuno. Bisogna, però, arrivarci al voto quirinalizio. E non sarà facile per la sempre più brancaleonica armata giallorossa. Che dalla sua parte, ha molti sostenitori autorevoli, in Italia come in Europa. E per tutti questi, l’ascesa al Colle di un esponente sovranista sarebbe una jattura. Come sa bene anche Silvio Berlusconi, che in questa partita c’entra e non c’entra.

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