Il capitale umano. Del ciclismo

"Hey, biondo". Mi ha chiamato proprio così, io che biondo non lo sono mai stato e che, vivaddio, conservo ancora un numero sufficiente di capelli neri tale da evitare confusioni. L’avevo appena superato, salutandolo con la mano appena alzata come si usa tra ciclisti sulla strada. Appesantito dalla cucina della moglie (ma neppure troppo, a ben pensarci) e soprattutto dall’età, avanzata in modo evidente, non mi sembrava bello stargli a fianco, quasi a sottolinearne le generazioni di differenza.

Ma lui – "Hey, biondo", per l’appunto – aveva voglia di chiacchierare. Una manciata di chilometri di pianura (a buon ritmo, sia chiaro), perché quando la strada ha cominciato a salire ha tirato i freni e ha preso un’altra direzione "che ho bisogno di tirare il fiato". Mica vero, naturalmente. Era soltanto l’orgoglio di non mostrarsi in difficoltà davanti a una pippa.

Eh sì, perché questo attempato ma invidiabile ciclista mi ha raccontato di avere alle spalle 81 primavere e una vita avventurosa che mi ha riassunto in cinque chilometri. Ex ciclista dilettante specializzato in cronoscalate – dai Piani Resinelli in su – costretto a rifugiarsi in fabbrica perché di ciclismo sono in pochi a poter campare, non è mai sceso dal sellino. Tre volte alla settimana è in giro per la Brianza. Senza casco, perché dentro la testa sono rimasti soltanto i ricordi ma con una bicicletta più che degna e un abbigliamento di una gloriosa società dei tempi nostri, a dimostrazione che al futuro ci guarda, eccome.

Tre figli, mi ha detto. Aggiungendo malinconico: “E neppure uno di loro ciclista, porca miseria. Il più bravo si è rotto il ginocchio al momento del passaggio a dilettante e non ne ha più voluto sapere”. Chiedergli che fanno adesso è stato quasi un siparietto: “Uno è ingegnere, l’altro insegna, il terzo è medico” ha detto alzando le spalle come se stesse parlando della pur rispettabile carriera di un minatore di carbone e non già del sogno realizzato di qualsiasi genitore.

Lui parlava e io ascoltavo, come si conviene ad una persona più giovane. Ma senza anoiarmi, davanti all’intercalare di questo signore d’altri tempi, gentile e premuroso. Si è informato sulla mia Bianchi bianca  e nera ("Che bella, anche per i colori che rimandano alla mia squadra” ha aggiunto ignorando che… in realtà eravamo in due a pensarla così), sulla differenza tra un carbonio e un alluminio (ma ne sapeva già più di me) e mi ha confidato che non osa neppure pensare quanto possa essere triste il momento in cui dovrà scendere dalla bicicletta. “Io esco sempre, anche quando piove come oggi. Tre volte la settimana. Il mercoledì pianura, il venerdì giro corto e la festa giro lungo”. E quando, ingenuamente, gli ho chiesto se avesse dei nipotini e non desiderasse stare un po’ più con loro, mi ha dato una risposta da ciclista autentico: “Sì, ne ho sette. Sono i miei tesori… Ma sono ancora troppo piccoli per venire con me in bicicletta”.

Adesso che rileggo queste note non so proprio perché vi sto raccontando un dialogo così privato e fugace. Ma, a pensarci, forse è perché in quell’anziano così pieno di vita – aggrappato con tutte le sue forze al manubrio di una bicicletta – io ci ho visto il capitale umano. Quello del ciclismo. Di ieri, oggi e domani. Quel capitale umano che nessun film e nessuna storia di doping potrà mai distruggere.

Gordon Ghekko, mitico protagonista di "Wall Street" – sinfonia maledetta sul demone del denaro che divora gli uomini – non sbagliava quando, nei suoi deliri finanziari al sorgere del sole, commentava che l’avidità "è una cosa bella e giusta". Avidità di soldi e di potere, certo, ma anche avidità di amore e di voglia di vivere. Avidità, per dirla con il vocabolario nostro, di sudore e di pedali.

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