Il nostro ciclismo e l'effetto Nibali

E’ così facile, in questi giorni, salire sul carro giallo del vincitore che quasi mi scappa la voglia. Quei cronisti che vanno a caccia di iperboli originali sono gli stessi che – Dio non voglia – saranno lì a trombonare indignati se si scoprisse che non era tutta farina delle sue gambe. Ipotesi remota, per fortuna, anche se la diffidenza, fin troppo palpabile tra le righe delle cronache, rende bene l’idea dello sprofondo di credibilità nel quale hanno fatto precipitare questo sport.

Ma un effetto pressoché immediato, la vittoria di Vincenzo Nibali al tour de France l’ha comunque già prodotta. O, almeno, mi piace pensare che sia così. Mai come domenica mattina, alla vigilia dell’incoronazione parigina, ho visto tanti amatori sulle nostre strade. Magari era colpa del maltempo di questo luglio maledetto: basta un pertugio di sereno e subito le strade si riempiono. O, forse, la salitona che avevo scelto – da Torre de Busi a Valcava, icona del Giro di Lombardia e dell’ultima tappa lecchese del Giro d’Italia – era soltanto l’ultima sfida pre-feriale per saggiare la forma acquisita.

Eppure, il dubbio mi rimane. Salendo sulle rampe della Valcava, che non sono propriamente per tutti, non mi era mai capitato di vedere un ciclista mettere il piede a terra, costretto cioè a salire a piedi nei tratti più duri, quelli con pendenze superiori al 20 per cento. I miei compagni di scalata – a velocità variabile, si capisce – sono sempre stati amatori di quelli che alle gran fondo stanno sempre davanti: addome piatto, polpacci ben disegnati, occhialini alla moda, neppure un capello fuori posto… Invece domenica mi sono imbattuto in tre diversi colleghi, dall’espressione visibilmente amareggiata che trascinavano la loro bicicletta bofonchiando. Uno di loro mi ha addirittura chiesto informazioni su quanto mancasse allo scollinamento, ignorando che lo attendevano i tre chilometri più duri. Mi sono rifiutato di smontarne l’ardore, si capisce, ma lì ho maturato l’idea che fosse una delle “vittime” di Nibali, travolto dall’eccitazione per le imprese del fenomeno in giallo e desideroso di assaporare il gusto agrodolce di una salita vera. Non sapeva che le telecamere del ciclismo appiattiscono tutto e quelle che sembrano pedalate in libertà, sono in realtà muri invalicabili.

Ma non fa nulla. Un ciclista in più sulla strada è sempre meglio di un ciclista in meno, se non altro perché “ruba” un pezzo di carreggiata agli automobilisti e ai loro tubi di scappamento. Quando saremo tanti, ma proprio tanti, cambieranno anche le prospettive di chi pensa che la strada sia patrimonio esclusivo e non tollera di dividerla con alcuno.

Senza contare che un ciclista in più, sia pure con il fiato spezzato dalla fatica, è un potenziale cliente in meno di cliniche ed ospedali. Ma, di questo passo, rischiamo di finire nella metafisica. Meglio fermarsi qui e pensare che con il tour abbia vinto anche quello sport che, indegnamente, cerchiamo di rappresentare. Senza limitarci a sedere sul divano, a concionare sui tempi andati “che loro sì che erano puliti” (come no…) e a spargere giudizi e veleni come se piovesse. Mentre magari, affondiamo una mano nella marmitta dei popcorn, con l’altra teniamo ben stretto il boccale di birra e chissà, magari c’è pure il gatto impegnato a fare i quattrocento metri sul nostro addome. Che tanto di spazio ce n’è da vendere…

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