Non mi manda papà

Suona quasi come una condanna, quella di avere un papà che ha sfondato nel mondo dello sport. Se si riesce ad imitarne le gesta, ecco i professoroni di turno a sostenere che ha avuto la strada in discesa e che è troppo facile essere un figlio di… Se i geni del ragazzo, invece, sono meno talentuosi di quelli del famoso genitore, dovrà sostenerne per tutta la vita l’ingombrante paragone. Fastidioso, ancor prima che umiliante.

Vale per tutti gli sport e vale anche per il ciclismo. Basta pensare ai figli di Roche e di Merckc, per fare un paio di esempi. Ciclisti professionisti di ottimo livello schiacciati da un cognome troppo famoso per passare inosservato. Se si fossero chiamati Bianchi o Rossi, per fare un esempio, avrebbero avuto ben altra fama, oltre ad evitare i mostri della retorica giornalistica che, armati di microfono, non si fanno remore ad avvicinarti dopo 200 chilometri di salite e di fatica per chiederti: “Sarà contento papà?”.

Ecco perché mi ha colpito l’annuncio dato nei giorni scorsi da Ignazio Moser – figlio del celebrato campione Francesco - in un’intervista a un giornale trentino. Mi ritiro dal ciclismo, ha detto. Un ciclismo del quale, ad appena 22 anni, non aveva ancora assaporato l’ebbrezza del professionismo, impegnato a correre con la formazione giovanile della Bmc. Ma è la motivazione ad essere sorprendente:  <Ho deciso di dedicarmi all’azienda vinicola di famiglia. I sacrifici che richiede il ciclismo ad alto livello comporta un certo stile di vita e determinati sacrifici, che penso valga la pena di sostenere solamente se si hanno dei risultati eccellenti. Ci sono tanti professionisti disposti a fare una carriera da gregario, da gennaio a ottobre, e così si guadagnano da vivere. Scelta rispettabilissima, s’intenda, ma il mio carattere non mi permette di essere così».

Una frase che rompe mille luoghi comuni sulla banalità della dialettica applicata al ciclismo. Ma prima ancora, un modo elegante per dire che quel cognome così pesante avrebbe dovuto portarselo sulle spalle per tutta la vita. E, presa consapevolezza di non avere le gambe di Marco Pantani così da oscurare la stella del genitore, meglio appendere la bici al chiodo ed evitare l’insano confronto.

Scelta estrema, si capisce. Forse neppure giusta per un ragazzo che a 22 anni pedalava come cinque di noi messi insieme. Ma, proprio per questo merita rispetto. Avrà rinunciato a qualche stagione di buon gregariato a duemila euro al mese, a qualche vittoria in corse poco note, a una manciata di contratti strappati con le unghie. Ma, alla fin dei conti, la sera potrà addormentarsi sereno. Senza troppo preoccuparsi di che cosa avrebbe detto papà del colore del suo cuscino.

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