Un Pirata sul lago

C’è un Pirata nel lago. Un Pirata che arrivava dal mare ma che, paradossalmente, ha costruito il proprio mito – e la propria disfatta – sulle montagne. Si chiamava Marco Pantani, è morto la sera del 14 febbraio 2004 a 34 anni. Lui moriva ed io ero al teatro Manzoni di Milano, ad ascoltare un concerto di Enrico Ruggeri (e mi piace pensare che fosse un regalo di San Valentino alla mia Daniela che ogni volta smentisce, parlando di casualità da calendario). Forse un segno del destino: Ruggeri è un grande appassionato di ciclismo e ha scritto una delle più belle  sigle del Giro d’Italia della Rai.

Alt, rischio di divagare dimenticando la notizia. Ovvero che venerdì sera, nel decimo anniversario della scomparsa, il comune di Lenno – due passi da casa Clooney, per capirci – ha organizzato una serata per parlare di ciclismo. Ci sarà Giuseppe Figini, membro dello staff del Giro dal 1971 e Stefano Allocchio, che è vice direttore della corsa rosa, oltre che un grande velocista di neppure troppi anni fa. Al sottoscritto l’onore di moderare l’incontro. Si parlerà di Marco – come evitarlo? -  ma non solo, perché il ciclismo, quello, non morirà mai. Anche grazie ad atleti come Pantani, che erano nati per scalare le montagne e per regalare quelle emozioni che soltanto la fatica, il silenzio e la natura – combinati insieme – riescono a dare. Spero che saranno in tanti a partecipare, tra gli appassionati che riempiono tutti i giorni le strade del lago. Si potrebbe parlare di sicurezza sulle strade, delle grandi corse (per amatori e cicloturisti come noi) che non ci sono, dei campioni del passato e del presente. Siete tutti invitati alla biblioteca di Lenno, naturalmente.

E non credete a quanti – compresi molti miei colleghi fin troppo autorevoli e rispettosi del proprio io – vi riempiono la testa di doping. Marco Pantani è stato sì un eroe tragico ma, come ho significativamente (ri)letto sul libro scritto (in compartecipazione) dall’attuale ct Davide Cassani, l’unica volta che è risultato positivo all’antidoping è stato sul tavolo dell’obitorio, durante l’autopsia. Ma quella cocaina che aveva finito addirittura per ingerire – travolto da un sistema che non lo amava – non c’entrava nulla con le sue gambe da campione e con quelle montagne sulle quali lui, e lui solo, aveva imparato a volare. [email protected]

© RIPRODUZIONE RISERVATA