Le nostre aziende coccolate. All’estero

Imposta unica sugli utili al 25%, burocrazia snella, lavoro flessibile, incentivi per la realizzazione di nuovi siti di produzione, premio fiscale del 12% per la ricerca e lo sviluppo. La vecchia Austria tenta i nostri imprenditori migliori, convinta - al pari di molti altri nostri vicini - delle qualità di una imprenditoria che i governi del Paese - quello attuale e quelli che l’hanno preceduto, ma probabilmente anche quelli che seguiranno - si ostina a maltrattare e a spremere nonostante hashtag e proclami.

La vicenda è questa: Alberto Croci, titolare della Techné, impresa erbese specializzata nella produzione di componenti per l’industria petrolifera, uno per sua stessa ammissione «bravo a laurà», ha ricevuto un invito da parte del governo della Carinzia, stato regione a sud dell’Austria, al confine con la nostra Carnia.

Gli chiedono di trasferirsi lassù, armi, bagagli, operai e know how, garantendogli un trattamento impensabile a queste latitudini. L’offerta, ammette lui è allettante, e lo è a maggior ragione alla luce della fatica di questi anni, alla luce delle difficoltà che di rado crea il mercato, più spesso lo Stato “canaglia” che, proclami a parte, resta sempre uguale a sé stesso.

Croci dice di essere un alpino, un alpino e un italiano con la “i” maiuscola, uno che baratterebbe probabilmente l’intera sua fortuna con la possibilità di restare qui all’ombra del San Primo, in questa sua terra a mezza via tra il Resegone e il lago. E però dice anche di essere uno che, al pari di migliaia di altri colleghi imprenditori, sente le spalle premute contro il solito muro gelido.

La sua storia, e quella di questo strano invito, meriterebbe di essere girata al ministero dell’Economia e al presidente del Consiglio, di essere squadernata sulle scrivanie di quei funzionari che sono poi i veri “cervelli” del nostro sistema fiscale, e che negli anni non sono mai riusciti, neppure sull’onda di questo renzismo dinamico e futurista (ricordate gli zang tumb tumb di Marinetti?), non sono mai riusciti a rendere più facile la vita dell’imprenditoria italiana, agrume sempre succulento e buono a dissetare il fisco e l’apparato «sempre ladro», per dirla con Oscar Giannino. Tanto che a volte sembra quasi di essere ancora agli anni Settanta, quando la ricchezza, nell’immaginario collettivo, di rado era sinonimo di dinamismo e capacità, più spesso di sopruso, maneggio, ladrocinio, e poco importava che molti o pochi capitani di industria e piccoli e medi imprenditori sfamassero mezzo Paese.

Insomma, la sensazione, al netto delle necessità di cassa, è quella che questo approccio ideologico - per quanto assurdo possa apparire - rimanga ancora in qualche modo impresso come una sorta di imprescindibile retropensiero che impedisce di affrontare le necessità dell’imprenditoria per quello che sono, necessità non “loro”, ma di tutti noi, del Paese intero. E allora? E allora è difficile immaginare una risposta plausibile a un invito come quello recapitato al titolare della Techné (che peraltro risponderà come meglio riterrà, senza i consigli di nessuno, e meno che mai quelli di un giornalista). Tanto più che in ballo ci sono famiglie e posti di lavoro. Mettiamola così: se partisse non avremmo motivo per biasimarlo. Ma nel frattempo, sarebbe interessante ascoltare la voce del presidente del Consiglio, che ha un ufficio stampa efficientissimo al quale non sfugge nulla.

Chissà, forse troverebbe il modo per “salire” da queste parti e per provare a convincerlo. A restare o ad andarsene.

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