
(Foto di foto Butti)
L’intervista a Gabriele Procida: «Questa è la società che mi ha cresciuto, inevitabile rimanere qui».
Predestinato lo è sempre stato, fin dai tempi del minibasket. Nella sua Lipomo. Tanta roba, forse troppa, per restare ancora lì. E quindi via, verso Cantù. Il massimo. Questa è la storia di un campioncino fatto in casa. Cresciuto e coccolato in quel grande incubatoio di sogni che è il Progetto Giovani.
E le stimmate del predestinato le ha mostrate a tutti, in giro per l’Italia e l’Europa, con un clamoroso percorso nel settore giovanile, specie nelle ultime stagioni, caratterizzato da uno scudetto, tanta Nazionale e riconoscimenti personali. Gabriele Procida da Lipomo, neo diciottenne, è l’uomo del momento. Il ragazzo sul quale la Pallacanestro Cantù ha deciso di investire tutto, facendogli firmare - e per quattro stagioni - il primo contratto da professionista.
Da Lipomo, allora.
Ho fatto tutti gli anni del minibasket nella squadra di “Besu”.
Perché sentivo di essere più forte rispetto alla media. E in nessun posto come al Pgc avrei avuto la possibilità di migliorare.
Il mio primo coach è stato Davide Pagani, nell’Under 13. Lì è cominciato il mio cammino.
Sì, due anni con Gabriele Zaccardini, poi quelli con Antonio Visciglia e infine con Mattia Costacurta.
Direi che piuttosto si comincia a parlare della squadra del 2002, con tutte le finali nazionali.
Una gioia immensa, già c’eravamo andati vicini. Quindi siamo arrivati con la consapevolezza di potercela fare, anche perché convinti dagli argomenti di coach Visciglia, e così è stato. Bellissima l’avventura di Bassano.
Sì, io e Ziviani siamo stati eletti nel miglior quintetto delle finali, una bella soddisfazione.
Ho iniziato dall’Under 16. Prima convocazione per un torneo in Spagna. Poi l’Europeo di categoria e quindi l’Europeo con l’Under 18.
Indescrivibile. Una cosa mai vista. Io, ma tutti, in Nazionale vado sempre carico a mille.
Esperienze che ti segnano e che ti lasciano dentro qualcosa per sempre. Io all’azzurro non rinuncerei per nessun motivo.
Sì, a Riga. Che roba.Peccato però non aver potuto giocare la semifinale scudetto con l’Under 18.
Avventura super. Molto utile, perché ho avuto la possibilità di misurarmi con giocatori mai affrontati prima. Livello alto.
Assolutamente sì. Per tre giorni. Mi hanno voluto far vedere tutto: la foresteria, la scuola, la gigantesca realtà dove si allenavano, con quattro campi sempre a disposizione. In più la prima squadra al lavoro, la sede e l’ufficio di Pablo Laso. Tantissima roba.
Ho sempre avuto un approccio soft alla partita. Anzi gioioso. Ricordo la sera prima di addormentarmi e il risveglio nel giorno della gara. Non vedevo l’ora.
Ho iniziato al Setificio, poi - anche per far combaciare gli impegni - sono passato al Pascoli. Lì, in base a un accordo scuola-Coni ho la possibilità di programmare di più, sapendo che i professori sono a conoscenza dei miei spostamenti e quindi si possono organizzare interrogazioni e verifiche. Devo ringraziare tutti gli insegnanti per la sensibilità dimostrata.
Un cambio di compagnia, forse inevitabile, era accaduto nel passaggio dalle medie alle superiori. Con qualcuno ci siamo un po’ persi. Adesso ho una compagnia più stabile: si esce quando ci sono, quando posso e spesso la sera.
La sto facendo.
Nel frattempo sono ancora papà e mamma che mi portano agli allenamenti. Come è successo da sempre, da quando sono a Cantù.
Ascolto l’hip hop americano, tanta trap e praticamente nulla di italiano.
Una bella sensazione. Un altro sogno che si avvera. Tutto troppo bello.
Tranquilla, molto tranquilla. Ho avuto la fortuna di avere dei compagni super. Pronti a darmi dei consigli, così come a non farmi sconti in caso di errori.
Diciamo che ho sfruttato l’euforia iniziale, il fatto che nessuno mi conoscesse e forse certi meccanismi altrui non ancora ben oliati a inizio stagione.
La prima tripla, aspettavo questo momento. E che, rientrando in difesa,pensai: “Oh, è entrata. Mi sono tolto questo peso”. Le altre poi sono state automatiche. Una anche dopo una difesa (ahi, qui ci devo ancora lavorare) contro Stone arrivata al limite dei 24 secondi e che mi ha dato fiducia.
Festa. Mi ricordo il “5” con Joe (Ragland, ndr). Poi ci siamo abbracciati.
Allenatore con tantissima esperienza, l’ideale per un giovane come me. Capace di mettermi in riga, di correggermi se sbaglio, di essere anche comprensivo come di incazzarsi in caso di errore ripetuto. Lo ritengo una componente super per la mia crescita.
Sì, perché lui è quello che mi conosce meglio.
Quattro anni di contratto per me vogliono dire tanto. Questa è la società che mi ha cresciuto e io, da bambino, passo dopo passo ho sempre seguito le vicende dei grandi della serie A. Mi sono sempre detto: “Cavoli, posso e voglio arrivarci”. E così è stato. Un sogno.
Io gli Eagles me li ricordo dietro al canestro al Pianella. Mi hanno sempre impressionato. Danno una carica pazzesca e sono pronti ad aiutarti anche quando sbagli.
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