Coronavirus in lombardia
Le domande irrisolte

La storia della vicina di casa del virologo Andrea Crisanti che gli lascia fuori dall’uscio torte e crepes perché, dice, “ci ha salvati” è emblematica. In Lombardia, senza nulla togliere alla abnegazione di chi tutti i giorni opera per rendere la vita difficile al virus, non vi sono e probabilmente non vi saranno signore che donano il cibo a qualche esperto. Non perché non vi siano eminenze scientifiche di grande valenza anche da noi, bensì per le scelte della politica che forse non le hanno assecondate come è successo in Veneto con Crisanti. Altrimenti non si spiegherebbe la situazione che stiamo vivendo. Vero che questo virus si è divertito a rovesciare tutti gli stereotipi possibili e immaginabili. Colpisce i ricchi come i poveri, i potenti allo stesso modo degli umili ed è anche sessista al contrario poiché tende ad avere un occhio di riguardo per le donne.

Sarà per questo che la Lombardia, regione sempre considerata “eccellenza” in tutti i campi compreso quello sanitario è ultima nella classifica dell’efficacia nella lotta al Covid-19, almeno se si prende per parametro quello sui casi e sui morti che ci dice che la metà, purtroppo, stanno sopra il Po e tra il fiume Ticino e il lago di Garda. Prendetelo come un paradosso: quando, negli anni ’70, scoppiò l’epidemia di colera a Napoli, quella immortalata dal presidente della Repubblica di allora, Giovanni Leone, che fa le corna, molti giù al Nord (il giù non è errore) dissero che non poteva che accadere lì. Si può affermare la stessa cosa adesso per pandemia e Lombardia? La difesa della politica è nota: qui ne abbiamo avute di più, qui è dove sono esplosi i focolai, qui c’è una densità di popolazione superiore che altrove. E poi, a quanto pare, il paziente uno è spuntato a Codogno. Forse è vero perché di certezze qui ce ne sono davvero pochine. Resta il fatto che, nell’uomo della strada delle contrade nostrane, alberga il dubbio che dall’esplosione dell’epidemia si sia andati avanti ad annunci e tentoni, tra cose dette e non fatte o arrivate in ritardo o fatte e non dette perché non era il caso o fatte in qualche modo.

Quello che è accaduto nelle Case di riposo e nelle altre Rsa è già al centro dell’azione di numerose procure: toccherà a loro accertare verità e responsabilità. Quel che è capitato ai medici di famiglia e a molti altri operatori sanitari è stato oggetto di numerose denunce dell’ordine professionale e di singoli “camici” che si sono ritrovati, a loro dire, come i tanti fantaccini sul Carso durante la Prima guerra mondiale: esposti al nemico senza la protezione dell’artiglieria e parimenti mandati a rischio di un massacro con tanti episodi di eroismo. Si può attribuire la responsabilità solo alla potenza del fuoco nemico che è certo rilevante? Chissà. Sta di fatto che in Veneto e pure in Emilia sembra arrivata l’ora in cui l’avversario sventola bandiera bianca con la dismissione delle terapie intensive ad uso quasi esclusivo coronavirus e la curva dei contagi che si abbassa più in fretta che da noi. La stessa Campania, quella del colera degli anni ’70 e del rutilante presidente De Luca sembra essere diventata un modello. E quindi non è una questione di colore politico che alla Regione Veneto è il medesimo della Lombardia mentre a Bologna e Napoli è differente. Come si è fatto nella Serenissima lo ha raccontato, anche sulle colonne di questo giornale, proprio Andrea Crisanti quello che trova le torte sull’uscio di casa: con l’utilizzo massificato dei tamponi che consentono di tracciare la mappa del contagio e di isolare gli infetti e monitorare chi è venuto il contatto con loro. Così anche il virus è imprigionato e non può andarsene in giro tranquillo. La domanda delle domande è: in Lombardia sono stati fatti tamponi a sufficienza? Le autorità dicono di sì, però, anche sul giornale che avete in mano trovate tutti i giorni storie di persone con sintomi conclamati a cui non è stato eseguito il test, o parenti e congiunti di pazienti positivi che non sono stati presi in considerazione. Perché? E perché anche sui test sierologici, i controlli del sangue che verificano l’eventuale produzione di anticorpi in persone asintomatiche o con pochi sintomi che potrebbero comunque aver incontrato il Covid ed essere ancora perciò in condizioni di contagiare gli altri è partito un balletto di stop and go e annunci a vuoto? E sui numeri: che confusione che approssimazione, impossibile dare una logica ai conteggi su contagi e morti? D’accordo il sistema sanitario è frutto delle riforme di Formigoni che magari non favoriscono una risposta immediata a un’epidemia come questa. Ma un po’ di tempo è passato e il “Celeste” non può continuare a essere un alibi. Restano tante domande senza risposta, tra cui l’ultima: dov’è finito Giulio Gallera? L’assessore al welfare della Regione Lombardia che nei primi mesi dell’emergenza compariva ovunque in tv e sui giornali con raffiche di cifre e annunci. Che gli è successo? In fondo tutta la faccenda dipende soprattutto da lui anche se pare che nei suoi pensieri si sia fatto largo quello di fare le scarpe al sindaco di Milano, Beppe Sala. Che sia già al lavoro per quello? Ok, prima però ci sarebbe un virus da togliere di mezzo.

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