Piccolo, grande studio sulla generosità

Ci riesce già molto difficile, per non dire impossibile, metterci d’accordo su dati ricavati da misurazioni oggettive, ovvero scientifiche e statistiche: il Pil, la crescita (o decrescita) della produzione industriale, gli sbarchi dei migranti, la posizione in fuorigioco di Ciofani del Frosinone. Chissà cosa accadrebbe se volessimo misurare nientemeno che la generosità degli uomini!

Si intravede subito una spaccatura: da una parte i cinici, pronti a giurare sul sostanziale egoismo della nostra specie, e dall’altra gli ottimisti, pericolosamente ai confini con la vituperata categoria dei “buonisti” - il termine più stupido e inutile mai uscito dal crogiuolo lessicale -, attenti a segnalare ogni gesto disinteressato a riprova dell’umanità... dell’umanità.

Nonostante questo evidente sbilanciamento, qualcuno a misurare la generosità ci ha provato sul serio: Lee Cronk e Athena Aktipis, rispettivamente antropologo e psicologo, fondatori e animatori di “The Human Generosity Project”, il primo progetto di ricerca su larga scala inteso a «investigare la relazione tra influenze biologiche e culturali sulla generosità umana».

Dopo quasi cinque anni di studio - il progetto ha preso avvio nel 2014 - Cronk e Aktipis sono finalmente pronti a condividere qualche osservazione su questo interessante soggetto.

Tanto per cominciare, l’Human Generosity Project ha riabilitato la reputazione degli Ik, una tribù di stanza sulle montagne dell’Uganda che era uscita maluccio dallo studio di un antropologo inglese, Colin Turnbull, pubblicato negli anni Sessanta sotto il titolo di “The Mountain People”. Turnbull non aveva esitato a definire gli Ik «gente senza amore», avendo assistito tra loro all’abbandono di bambini denutriti e al furto di cibo letteralmente dalla bocca degli anziani.

Oggi si scopre che Turnbull aveva visitato la tribù durante un terribile periodo di carestia: in condizioni di vita più decenti, oggi, gli Ik non sono affatto «gente senza amore». Al contrario, manifestano atteggiamenti di solidarietà come e più di ogni altro gruppo sociale.

Ciò detto, resta da capire che cosa veramente è la generosità umana, in quale “quantità” è disponibile e come si può fare, nel caso, a incoraggiarla e a incrementarla.

Ebbene, studiando in giro per il mondo episodi di cooperazione e mutuo soccorso, come nel “need-based transfer system” (“chiedo ciò che mi serve e non di più; dò quel che posso senza impoverirmi a mia volta”), gli studiosi del Project hanno messo a punto una mappa della generosità umana in grado di fornirci preziose indicazioni. Tra queste, quella che constata come la generosità è spesso una sorta di “assicurazione” interpersonale: «Aiuto oggi il mio vicino che ha bisogno nella speranza/certezza che domani, all’occorrenza, egli farebbe la stessa cosa per me».

In questo senso, il “need-based transfer system” risulta la forma di cooperazione più efficace, se paragonata per esempio a sistemi che prevedono un rimborso programmato delle risorse messe a disposizione (“account keeping”). Ancora, è risultato evidente che chi in passato ha vissuto situazioni di seria emergenza, è decisamente più disponibile a donare risorse e tempo.

Infine, ed è forse il risultato più importante, lo studio ha dimostrato che il mondo non è diviso tra società generose e società egoiste: la generosità è invece innata ma, come ogni altra virtù, va coltivata e protetta. Anche a rischio che qualche pisquano dal dizionario maldigerito insista nel chiamarci “buonisti”.

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