Una mail da Joyce

Fin dalla giovane età ho coltivato un’ammirazione - non ricambiata - per lo scrittore irlandese James Joyce. Non ho potuto dunque evitare di infliggermi l’acquisto del corposo volume “Lettere e saggi” pubblicato recentemente da Il Saggiatore (1102 pagine, 75 euro).

Ancora non so quando troverò animo a sufficienza per immergermi nella lettura, ma posso affermare che mi è bastato sfogliare il volume perché, al piacere fisico del gesto, si aggiungesse una piccola riflessione forse non del tutto superflua.

Il volume raccoglie le lettere che lo scrittore indirizzò nel corso di un lungo arco della sua vita a familiari, amici, colleghi. Le prime risalgono al 1900, le ultime al 1941: in tutto questo tempo Joyce prese spesso carta e penna non solo per completare i suoi capolavori, ma anche per sostenere una fitta corrispondenza. Le sue missive, forse perché risultato degli sforzi di un grande scrittore, hanno nel contempo il suono della letteratura e della quotidianità.

Nel 1939 Joyce scrive, in italiano, a Livia Svevo, moglie di Italo Svevo: «Gentile Signora: finalmente ho finito di finire il mio libro. Sono già tre lustri che pettino e ripettino la chioma di Anna Livia (il riferimento è a “Finnegans Wake”, ndr). È ora che s’avanzi alla ribalta. Spero che Berenice intercederà per la sua piccola consorella affinché trovi in questo vasto mondo, per la grazia delle idee, «almeno un Deo Gratias qualunque».

Lo spirito - non ultimo quello compreso nel vezzo di scrivere “finalmente”, “finito” e “finire” nella prima frase - fanno di questo frammento un piccolo esercizio di stile. Vien da chiedersi - e mi aggancio alla riflessione annunciata sopra - che cosa sarebbe accaduto, o non accaduto, se Joyce, come noi tutti oggi, avesse scritto una mail invece di una lettera. Sarebbe stato comunque Joyce anche al computer? O il mezzo avrebbe condizionato perfino lui? Non lo sapremo mai. Per fortuna.

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