Giovannino in bicicletta

Il grande Guareschi e una passione infinita per il mondo delle due ruote

«Chi viaggia in automobile non può avere nessuna idea che esuli dalla più contingente realtà: se ne trova qualcuna non se ne può servire in alcun modo perché subito dopo viene raccolto in un burrone, in un fosso o a piedi di un muro. Chi viaggia in treno deve seguire i ragionamenti dei compagni di scompartimento. Chi viaggia a piedi è un disgraziato e il pensiero più originale che possa passargli per il cervello è quello di trovare un barroccio che lo prenda a bordo.(…) Esclusivamente chi viaggia in bicicletta si sente solo senza peraltro sentirsi abbandonato come il pedone. E, in questa gradita solitudine, le idee singolari sbocciano l’una dopo l’altra. Perché? E’ così».

Queste parole, lo avrete intuito, non sono mie. Appartengono a quel grande giornalista, vignettista, caricaturista (e mille altre cose) che risponde al nome di Giovannino Guareschi, il papà – per spiegarlo ai più giovani prima che si affannino a smanettare su Google – della saga di Peppone e don Camillo. Si trovano in uno splendido libricino firmato dal giornalista Marco Albino Ferrari e che mi è stato donato in occasione del Natale da una carissima amica che conosce bene la mia infinita passione per il ciclismo. E quale migliore regalo dei pensieri di un «sognatore su due ruote», giusto per citare il sottotitolo?

Intendiamoci, di questo figlio della bassa, padano e ciclista – come si definì lui stesso – conoscevo già parecchio. E molto altro mi era stato raccontato da Michele Brambilla, l’inviato monzese de «La Stampa» che coltiva da tempo una grande passione per quest’uomo perseguitato da destra (nei lager nazisti), da sinistra (per il suo anticomunismo) e dal centro (in galera per una vignetta mai ripudiata su De Gasperi).

Ma non conoscevo – nella mia infinita ignoranza – questo viscerale rapporto con le due ruote e, in particolare, con una vecchia Dei che – alla sua epoca – appariva un gioiellino della tecnologia per via dei suoi dodici chili dodici di peso. Praticamente un mattone, con i parametri di oggi. Le frasi che ho citato sono un sunto perfetto di quanto cerco (maldestramente) e ormai da interi mesi di raccontare su questo blog. Concetti che sfiorano l’essenza stessa della filosofia applicata alle due ruote. Perché tutto si potrà dire di questo sport fatto di fatica e di sudore, di polpacci che pulsano e di cuore perennemente sul punto di esplodere. Ma non che non sia un meraviglioso modo per stare con se stessi. Soli senza sentirsi soli. Lontani con i pensieri ma, contemporaneamente, immersi in luoghi che non avremmo altro modo per vedere e per apprezzare.

Non confondete il ciclismo della domenica – quello che qui cerchiamo di raccontare – con quello che è professionismo e che si porta appresso ben altri problemi. Il ciclismo di Guareschi – e assai più modestamente quello di tutti noi – è un ciclismo autentico, di gioia pura, di silenzio e di godimento, così grande eppure così magicamente riassunto in due pedali e un manubrio.

Lo avrete capito. Mi piace il piccolo mondo antico raccontato dal Guareschi. Ma sono certo che anche noi - e soltanto noi - abbiamo la possibilità di incontrarlo ogni giorno. L’altra mattina, giorno di San Silvestro, ho diretto la mia Bianchi verso i colli. E mentre salivo sbuffando per il freddo verso Colle Brianza prima, Garbagnate e Costa Masnaga poi, non ho potuto fare a meno di alzare lo sguardo – sotto un cielo azzurrissimo – davanti alle vette innevate del Resegone e delle Grigne. E poi, voltando lo sguardo verso il basso, i laghetti della Brianza, il Monte Rosa all’orizzonte più rosa che mai, la pianura cementificata che si allarga intorno a Milano. Sono belle sensazioni, che ho avuto il privilegio di condividere con me stesso e i miei pensieri. E, idealmente, con Guareschi e l’amica che mi aveva regalato il libro e che spero abbia letto prima di me. Non ho dubbi. Per me, per noi, per voi, vale il prezzo del biglietto. E chi non ci crede vada pure in treno. «Perché? E’ così».

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