Il ciclismo d’inverno

Fanatismo o passione? Domanda con mille e una risposta, ovviamente. Ne abbiamo già discusso, su questo blog, senza (ovviamente) arrivare ad una conclusione. Ma resta una domanda affascinante che mi sono posto domenica mattina, giorno dell’Immacolata e primo vero antipasto di Natale, scusa ideale per passare da un divano all’altro, da una partita alla successiva, con - al massimo - un intermezzo culinario a base di cassouela, ammesso che si trovi ancora qualche nonna capace di cucinarla.

E, invece, mi sono imbattuto - come ogni altra maledetta domenica, per dirla con quel film - in centinaia e centinaia di colleghi ciclisti. La scena, a guardarla - ahimè - dai finestrini di un’auto era vagamente surreale. Tutti infagottati nei body super tecnologici, con passamontagna d’ordinanza, guanti pesanti, piedi saggiamente infilati nei copri scarpe. Il tutto muovendosi lungo strade fantasma, avvolte da un nebbione che andava e (piu’ spesso) veniva, colorando tutto di un tristissimo grigio. Mi sono pure immaginato la scena, di decine di mogli che - davanti al consorte imbacuccato sull’uscio di casa quando i cristiani ancora dormono - bofonchiavano con l’occhietto semichiuso: «Ma chi te lo fa fare?».

Già, chi te lo fa fare? E si torna alla domanda dell’inizio. La prima risposta, quella di pancia, è scontata: fanatismo di ex ragazzotti con l’unico neurone funzionante lasciato nell’armadio per inseguire l’illusione di un tempo ormai andato, quando il cervello ordinava e le gambe eseguivano... Fanatici al punto di sfidare il buon senso e quel calendario mai scritto che vuole i ciclisti rigorosamente in panciolle da metà novembre a metà febbraio, al più ridotti a tristissime pedalate sui rulli in cantina o in garage.

Ma è una spiegazione troppo banale per essere vera. Può valere per un manipolo di irriducibili, al più. Ma non per centinaia e centinaia di persone, dal muratore all’operaio, dal manager all’impiegato che già si è fatto un mazzo tanto in settimana e che avrebbe tutto il diritto di starsene a pancia all’insù un attesa della chiamata per il pranzo. E non regge, non per tutti almeno, la spiegazione psicologica dell’inseguimento - vano e inevitabilmente destinato all’insuccesso - del mito dell’eterna gioventù, quasi che quei colpi di pedale restituissero magicamente quanto portato via dal calendario.

Ed allora, non resterebbe che la spiegazione più semplice. Ovvero che si affronta questo maledettissimo inverno trascinati dalla sola forza della passione, che - si sa - è l’unica cosa che smuove le montagne. Passione che, declinata con il vocabolario dell’ovvio, ha una spiegazione banale: si pedala perché è bello e perché piace da morire. Il resto lo fanno i materiali, in grado di far fronte ai rigori di certe temperature proponibili soltanto ai pinguini.

Sabato, al ritorno da una escursione di un’ottantina di chilometri con pochi (ghiacciati) chilometri di salita e tanta agilità per tenere la gamba (si dice così, no?) non mi ero chiesto il perché di tanta infreddolita fatica. Ma la risposta era implicita nella soddisfazione provata al momento di fare la doccia. Avevo preso freddo ed ero comunque sudato come un cinghiale imbizzarrito, con i brividi un po’ ovunque. Eppure stavo molto meglio di quando ero partito. Semplice, no?

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