Il marcio non sta solo in Danimarca

Dietro il doping del ciclismo e lo sport nazionale di tirare palle di fango sui campioni. Per poi scoprire che...

Quando si parla dei campioni del ciclismo, c’è il rischio di lasciare la mano sul fuoco come quel romano un po’ imbecille. Del resto il Tour de France del centenario non era ancora cominciato e già avvoltoi della penna facile – un po’ per non correre il rischio di passare per fessi a posteriori e un po’ perché tre colonne di titolo di trovano sempre, quando si tratta di lanciare palle di fango – giravano attorno a quello che doveva essere (ed è stato) il dominatore del campionato del mondo a due ruote. Noi non possiamo sapere se Chris Froome (ma neanche i saputelli dei giornali, naturalmente) è tutto acqua, sapone e sudore come lui giura senza troppi giri di parole o se, invece, anche lui ha trovato lo stregone più stregone degli altri. Di certo quello che l’ha visto protagonista è stato uno spettacolo bellissimo che ha meritato tutto il contorno di pubblico che abbiamo visto in tivù: dalle salite dell’Alpe d’Huez fino alla volata crepuscolare (nel senso del tramonto) sui Campi Elisi. Chapeau, per restare in tema.

Un po’ di retrogusto, però, ci rimane. Possibile, ci chiediamo noi pedalatori della domenica, che quando si parla di ciclismo si spende la metà del tempo a discettare di doping e quando, per contro, si parla degli altri sport, non c’è neppure il tempo per un sospetto? Sono i misteri dell’informazione e del luogo comune che vogliono noi pedalatori come grandi (e soli) frequentatori di farmacie.

Intendiamoci, l’elenco dei furbetti è lunghissimo ed è quasi patetico arrampicarsi attorno agli attacchi d’asma o alle bistecche troppo al sangue. Però, se volessimo guardare l’altra faccia della medaglia, dovremmo anche concludere che i furbetti vengono scoperti perché ci sono i controlli. E che controlli, se è vero che lo stesso Froome, a una manciata di giorni dal traguardo, è stato sottoposto ai raggi X e Y per tre volte in ventiquattro ore. Roba che un tennista o un nuotatore neppure si sogna.

Ciclisti tutti brutti, sporchi e cattivi. E pazienza se, come accaduto proprio questa settimana, basta un controllino nel dorato mondo della velocità per scoprire una discarica di nefandezze. Un paio di giorni di titoli sui giornali, neppure troppo strillati e poi via, il circo può rimettersi in moto.

Ci resta la sensazione che non tutto il marcio sia in Danimarca, per dirla con lo scrittore. E che le due ruote paghino anche colpe non sue. Quell’insana voglia, tutta umana e psicologicamente inspiegabile, di trascinare nella polvere gli idoli portati per tanto (troppo?) tempo sull’altare. O, forse, il fatto che il ciclismo sia sport povero, di fatica autentica, di bocche spalancate alla ricerca dell’ossigeno che manca, di garretti che sembrano esplodere nei body… Nulla di paragonabile, forse, alle magliette dello stilista fighetta appiccicata attorno ai preziosi muscoli del tennista. Per non parlare del pantalone perfettamente stirato e con la riga a modino (ma come faranno?) del golfista da vagonate di milioni di dollari. E via di questo passo.

Il ciclismo fa sudare, gocce puzzolenti di fatica scendono nelle magliette colorate e, sarà quello?, forse viene difficile pensare che ci sia gente che prova un insano godimento a farsi del male in tal modo. Tutto ciò, senza filosofeggiare troppo, per dire che il ciclismo è pulito – o sporco, fate voi – esattamente come quasi tutti gli sport, ping pong e carling compresi. E’ soltanto la percezione a cambiare.

A noi, che non prendiamo neppure un’aspirina senza il mal di testa perché un cicloturista dopato è più patetico che triste, il ciclismo evoca un milione di altre cose. Bastava guardare domenica scorsa una manciata di anziani male in arnese – sportivamente parlando, si capisce – che cercava di salire il muro di Sormano alla Gran Fondo Casartelli. O il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi che saliva – piano piano, trascinando l’addome un po’ troppo pronunciato – verso il passo dello Stelvio, felice come una Pasqua e convinto, al di là della retorica d’ordinanza, che guidare un’azienda è solo una metafora delle due ruote.

A chi sputa sentenze sull’etica senza aver mai mosso un pedale in vita propria, beh, non è il caso di destinare troppe parole. Continui a rosicare e a vedere il demone del peccato. Noi continueremo a pedalare, come ho fatto domenica arrampicandomi alla Culmine di San Pietro. Solo con la mia bici, con il silenzio rotto dalle cicale (se cicale erano) e dall’acqua dei ruscelli. Questa è musica, maestro...

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