Meno male che il Davide c’è

Perché la televisione non rende giustizia alla fatica del ciclismo. Facendoci diventare tutti esperti. Ma solo del tubo catodico.

Anch’io faccio parte di quella categoria di ciclisti che, l’amato sport, preferisce praticarlo piuttosto che guardarlo in televisione. E’ vero, siamo in pochi, perché resta sempre valida la considerazione secondo la quale in Italia ci sono migliaia di calciatori ma almeno 60 milioni di commissari tecnici. La metà dei quali tromboneggianti dal divano di casa.

Per non parlare poi – lo dico a bassa voce – dei miei colleghi giornalisti: è vero che non bisogna necessariamente aver corso con Hinault per parlare di ciclismo ma sentirli mentre vomitato critiche feroci dall’alto dei loro cento chili di peso – quasi tutti portati sul davanti – mi fa venire i formicolii alle dita.

Fanno eccezione, in questa platea, i commentatori della Rai e, se permettete, questo suona tanto di miracolo. Forse il vederli armeggiare con il microfono da una moto, in costante e precario equilibrio, mi ispira un pizzico di romanticismo. O, forse e più prosaicamente, sono le persone – in questo caso i commentatori – a fare la differenza. Prendete il tour de France di questi giorni. Nell’ultimo weekend – dopo la pedalata mattutina – mi sono concesso un paio d’ore sulle strade della corsa a tappe più famosa del mondo. Beh, è stato uno spettacolo. Davide Cassani è una garanzia: è stato ciclista, conosce il significato della fatica e raramente si lascia andare in considerazioni che non siano più che rispettose di chi pedala. E poi il dettaglio sull’atleta in fuga, la sua storia – sempre belle e affascinante, non solo quelle dei colombiani nati poveri e scesi nel mondo per fare su e giù dalle salite – il dettaglio sul rapporto o sulla tattica. Domenica, per farvi un esempio, c’è mancato poco che indovinasse al secondo il ritardo con il quale Richi Porte sarebbe arrivato al traguardo. Non ci fosse stata la diretta, avrei pensato al miracolo della...differita.

C’è una sola cosa, nel ciclismo in televisione, che non mi convince. Ovvero non si riesce a percepire la difficoltà della salita. Le inquadrature schiacciano l’immagine e la strada sembra sempre in pianura o quasi. Il forcing di questo o quel ciclista finisce, di conseguenza, per apparire un gesto tecnico persin banale. E il malcapitato che non regge il ritmo, un povero pisquano che non si capisce bene perché si stacchi tanto facilmente.

Chi pratica il ciclismo lo sa bene. Domenica, per esempio, ero reduce dalla salita che da Nesso porta al Pian del Tivano e poi a Sormano. Tredici chilometri di fatica pura, con una pendenza media intorno al 7 per cento. So quanto sudore ci ho messo, spingendo sui pedali. Nel pomeriggio, nella tappa del tour, c’erano quindici chilometri di salita – e non era neppure l’ultima – all’8,5 per cento medio. Ebbene, vista in televisione sembrava una passeggiata a venti all’ora con quelle telecamere che sembravano rilanciare una qualsiasi pista ciclabile di Monza piuttosto che un muro di asfalto.

Mi stupisce che nessuno abbia ancora pensato – in questa era tecnologicamente avanzata – di infilare una microcamera da qualche parte. Chesso, magari nella pedivella della moto al seguito che – di tanto in tanto – mostri che cosa significa affrontare una salita. E pure una discesa a 90 all’ora con la strada che si fa piccola piccola e il tornante che incombe. O una volata con quello che sgomita a cinque centimetri dal tuo viso. Magari qualcuno ci penserà. Per il momento, meglio stare ad ascoltare il Cassani che ci spiega perché il ciclismo non è soltanto Epo e trafusioni. Ma, soprattutto, una sfida tra l’uomo e una natura che sembra fatta apposta per respingerlo.

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