Non ti sopporto più

Non ti sopporto più

Non fosse una questione maledettamente seria, ci sarebbe da ridere. I fatti, in due parole: quest’anno, molto probabilmente, la Granfondo Gimondi – diciassette edizioni, 70 mila persone alle spalle ed un nome che è una garanzia – non si farà. Per questioni legati alle autorizzazioni e alle condizioni delle strade. Le stesse ragioni per cui, l’anno scorso, il percorso era stato modificato all’ultimo momento, tra la disperazione degli organizzatori e l'ira funesta degli iscritti. Avete capito bene: anziché sistemare le strade – che non servono solo ai ciclisti, evidentemente – si cancella la corsa. Come dire che se avete il mal di denti non si va dal dentista, ma si uccide il malcapitato. Si fa prima e non ci sono intoppi.
Il caso della Gimondi è generalizzato. Lo stesso accadde alla granfondo di Lecco, durata lo spazio di una edizione perché le biciclette avevano osato calpestare per una decina di chilometri il sacro suolo della Statale 36, la sacra route che porta verso il paradiso degli sciatori. E potremmo parlare delle corse cancellate al Ghisallo, che non è esattamente il sottopasso di Arcore, perché i sindaci non volevano chiudere il traffico in un giorno festivo ai turisti. Come se salissero su una collinetta di mille metri scarsa per ammirare il municipio di Civenna e non già perché quel nome evoca Coppi, Bartali e Fiorenzo Magni.
La realtà, come commenta con amaro realismo il vecchio Gibo Baronchelli su l’Eco di Bergamo, la gente non sopporta più i ciclisti. Non lo fa in settimana e sulle strade intasatissime di Monza – basta guardare il tono di certe lettere pubblicate dal nostro giornale – e non lo fa nel weekend quando un po’ di tolleranza in più farebbe la gioia dello psicoterapeuta. Lo si capisce dal clacson al quale tanti automobilisti si aggrappano con forza non appena vedono due biciclette affiancate, preferendo di gran lunga fare a sportellate con il vicino di corsia che lo vuole superare per essere il primo in coda al semaforo.
Insomma, una battaglia persa. Con una buona dose di ipocrisia, visto che poi sono le stesse persone che aderiscono entusiasticamente ai mille progetti di mobilità sostenibile (ah, ah, ah) che si chiamino salvaciclisti o in treno con la bicicletta. Spenta la luce della telecamera, ritagliata la fotografia sul giornale da tramandare ai posteri ignari, torna tutto come prima. E chi senefrega della Gimondi, e questi non si fermano ai semafori, e pedalano affiancati e hanno la faccia brutta e magari non si lavano neppure troppo… Io resto della mia appassionata idea. Quando vedo – come la scorsa settimana in via Amati a Monza – un nonno in bicicletta che porta il nipotino all’asilo tra due ali di lamiere fumanti, mi vengono i brividi al pensiero dei pericoli che corre. Ma mi si apre il cuore alla speranza di una mobilità sostenibile che non sia solo a parole ma anche a pedali.
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