Nostalgia canaglia

I primi ricordi sulle rampe che portano alla Roncola – mille metri di quota, partenza da Almenno San Bartolomeo, salita cult della bergamasca – risalgono alla gioventù giornalistica quando, con un pizzico di insano scetticismo (ma l’ho capito assai dopo) mi capitava di seguire qualche corsa ciclistica degli juniores.
Adesso che sono dall’altra parte dell’ammiraglia (che non c’è) e sto bulimicamente riempiendo la mia personalissima fossa del “senno del poi”, comprendo benissimo il senso della fatica di quei ragazzi che, una ventina d’anni fa, mulinavano gambe e rapporti. Ha un fascino particolare questa salita. E pure la discesa non scherza, tecnica al punto da mettere in difficoltà fior di professionisti che due anni fa l’hanno affrontata nel Giro di Lombardia (col sottoscritto al seguito… ma automunito).
Tutto ciò per raccontarvi che sabato ho percorso per l’ennesima volta questa strada. Salita lunga ma non troppo, impegnativa ma non tremenda, larga ma non tale da consentire raid motociclisti, ripida ma costante, senza quegli strappi che ti prendono i muscoli e li riducono a straccetti dolenti. Insomma, per noi ciclisti della domenica è una salita che ha un suo bel ”perché”. Lo si deduce dal fatto che, in qualunque periodo dell’anno, non sei mai solo. Una volta in cima, in un tempo più accettabile del solito, il ristoro alla fontana della piazza centrale, sotto un cielo grigio e in un’atmosfera un po’ retrò, con gli alberghi semichiusi, i bar con le luci spente e il grigio intorno a te, come quello slogan della banca. Ma qualcuno per dirsi due parole lo si trova sempre. Nella fattispecie un attempato signore dal polpaccio ben presente ma dalla barbetta bianca che tradiva un sessantello abbondante. Armato di mountain bike d’ordinanza, borbottava tra sé che ogni anno è sempre peggio, accidenti al tempo che scorre. E mentre lo faceva si dava una bella massaggiata all’addome, pronunciato quanto basta ma ben lontano – credetemi – da certi incresciosi insulti al fitness che si vedono pedalando in pianura. Mi sono sorpreso a pensare che, per adesso e soltanto per adesso, non è del tutto vero. Per quanto mi riguarda ogni anno va sempre meglio. Direte: facile, dipende dal punto di partenza. E l’obiezione non fa una grinza.
Il tempo che passa, del resto, è un demone contro il quale non c’è verso di combattere ad armi pari ma, a pensarci in tempo, si può tentare di metterlo in difficoltà. L’allenamento aiuta i campioni ma anche le pippe come noi, alle quali basta una Roncola – e poi tanta discesa e pianura, si capisce bene – per farci sentire a posto con la gamba e la coscienza. In quest’ottica, allora, non è vero che ogni anno che passa va sempre peggio. Va sempre un pochino meglio di quando andrebbe se non avessimo questa strana e insana passione per la fatica a tutti i costi. Lo stesso collega, grondante sudore in una mattina fin troppo fredda per essere primaverile, concludeva autoassolvendosi che, a conti fatti, era pur sempre meglio di una mattinata trascorsa al bar, tra un camparino, un prosecco e, a voler essere sportivi per forza, tre tiri di stecca al biliardo.
Discorso nostalgico, d’accordo e fors’anche decadente, come quelli di certi letterati antichi. Ma che ci volete fare, è il segno del tempo che passa. Ciascuno di noi, e soprattutto i ciclisti di ritorno, sogna un bel salto all’indietro nel film della vita, quando con la coda dell’occhio si ammiravano i Merckx e i Moser ma l’idea di provare ad imitarli faceva venire il mal di stomaco. Ed è per questo che mi torna alla mente una frase attribuita ad un mio omonimo (solo nel nome di battesimo, ahimé) secondo il quale la scrittura non è altro che l’arte di tenere il culo incollato alla sedia. Una faticacaccia tremenda. Forse forse, e a ben pensarci, è così anche per il ciclismo. O no?
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