Nove Colli, dieci polmoni

Nove Colli, dieci polmoni

Cronaca semiseria di un giornalista al seguito della più importante manifestazione ciclistica per amatori

Giuro, ho pensato che fossero segni del destino. Del resto, che cosa avreste fatto, se ordinando un bel piatto di pasta in bianco la sera prima della Nove Colli, vi foste trovati davanti – scelte a caso nel mare magnum della dispensa di un grande albergo – un bel piatto di mezze pipe? Neppure pipe normali, proprio mezze pipe… Hai voglia a dire che i fusilli erano finiti...

E che cosa avreste pensato se la mattina della corsa, poco dopo le 5, al momento di parcheggiare l’auto, un solerte vigile vi avesse indirizzato – tra tutti i parcheggi che esistono – proprio nel piazzale del cimitero di Cesenatico? Quasi a dire, insomma, che mal che fosse andato non avrei dovuto fare neppure troppa strada per l’eterno riposo…

D’accordo, sto scherzando. Ma è l’effetto dell’adrenalina – solo adrenalina, sia chiaro – che fatica a scendere sotto i livelli di guardia. Del resto, una volta spogliato della giusta dose di benevolenza che ciascuno concede al proprio ego, anch’io temevo di perdermi lungo le strade della Romagna, magari insieme ad alcuni dei 12 mila appassionati che si erano dati appuntamento sulle strade della più importante manifestazione di ciclismo amatoriale. Non esagero, credetemi: 130 chilometri (in realtà 132) di cui 50 di salita per quasi 1900 metri di dislivello, 40 di discesa tale da far rimpiangere le rampe più secche e altrettanti di una pianura battuta da un vento feroce, non sono proprio il menù quotidiano. Servono muscoli, cuore e testa. C’è chi li ha e chi non li ha. Parafrasando quel comico potrei dire che io, modestamente, li… ha.

Sia chiaro, non ho mica polverizzato il cronometro. Ma nel mio piccolo – l’età avanzata e il tempo libero scarso sono penalizzazioni pesanti – ho chiuso in 5 ore e 16 minuti. Qualcosa che, ai miei occhi, suona come un tempo onorevole. In un rigurgito di immodestia, potrei persino arrivare a vantarmi di aver impiegato un’ora in meno di Linus, che di professione da il deejay ma che ha due attributi così quando si tratta di fare sport, dalle maratone di mezzo mondo fino alle due ruote.

La cronaca potrebbe essere tutta qui. Mi piace però aggiungere della sveglia alle 3.30 del mattino, della colazione a base di pasta al pomodoro alle 4, dell’hotel Dory del mio amico Stefano illuminato a giorno per preparare le biciclette, del viaggio nel buio da Riccione fino a Cesenatico per la partenza, guardando con raccapriccio le orde di giovani che zizgavano con la bottiglia della birra in mano sul marciapiede, cercando invano la strada del rientro a casa. Mi è piaciuto leggere – non ricordo se su “La Voce” o il “Corriere di Romagna” – che la Nove Colli, prima di tutto, è la rivincita del popolo che si alza presto la mattina rispetto a quello che va a letto tardi la notte. Proprio vero.

Comunque sia, alle 5.30 ero al mio posto in griglia, a svegliare la moglie dormiente a colpi di sms, insieme a una cinquantina di monzesi, che non c’è stato verso di rintracciare. Quindici gradi di temperatura, il cielo grigio e quell’atmosfera tra il naif e la festa popolare che soltanto in Romagna si può assaporare in tutta la sua pienezza. Il sindaco che se la gode dal palco, dopo aver lasciato la cucina del suo hotel (eh, già, da quelle parti l’economia è monotematica), il parroco che invita tutti a recitare il padre nostro. E pazienza se australiani e neozelandesi, israeliani e norvegesi, tedeschi e panamensi faticano a capire il senso di questa preghiera propiziatoria. Lo seguono proprio tutti, che male non fa.

Poi il via. Chi ha partecipato alla Nove Colli sa che cosa significa. Siccome si parte a gruppi di circa 2000 corridori intervallati da tre minuti, bisogna evitare di farsi raggiungere dagli iscritti nella “griglia” successiva alla propria. E non è proprio così semplice visto che i primi 25 chilometri – attraverso Cesena e Forlimpopoli – sono in pianura e c’è quindi il rischio di ritrovarsi imbottigliati al momento della Polenta, la prima salita dal nome ingannatore. Morale della favola, tutti a tavoletta a partire dal primo metro. Bastano le parole che Jarno Trulli – un altro vip al via – ha detto a un giornale del posto: “Neppure in formula Uno ho provato tanta paura alla partenza, tutti che mi sfrecciavano a destra e sinistra”. Chiaro il concetto?

Dalla prima salita in poi, cominciano le emozioni forti. Che non sono quelle sportive, credetemi. Il passaggio nei paesini era una festa. Traffico bloccato ovunque, ogni rotatoria presidiata dai vigli urbani e dalla protezione civile, punti di assistenza meccanica e di ristoro ad ogni manciata di chilometri… Neppure un automobilista con la mano sul clacson, neppure un vaffa lanciato da un finestrino abbassato, neppure un invito a cercare un passatempo migliore… Soltanto paesi imbandierati a festa e centinaia di persone ad applaudire ed incitare manco stesse passando Nibali e compagnia bella. Sarà che da queste parti, come raccontava Marino Bartoletti nella brochure della gara, si impara prima a pedalare e poi a camminare ma, per un lungo attimo, assapori persino la sensazione di essere un ciclista vero e non già un dilettante più o meno allo sbaraglio. Non vi dico poi dal Berbotto, la salita delle salite, con l’ultimo chilometro (tutto transennato) al 18 per cento di pendenza. Tra gente che vomita sul ciglio della strada dopo aver messo il piede a terra e ciclisti messi peggio del sottoscritto che fanno zig-zag pericolosamente incapaci di fare un altro giro intero di pedale, c’è un sacco di gente a raccontarti un sacco di bugie, che è finita, che è l’ultimo tornante, persino che mancano 121 metri. Giusto per essere precisi. E pazienza se, per molti, 121 metri sono come due chilometri, in quelle condizioni. Anche perché quella salita arriva dopo 90 chilometri passati a tutta, un saliscendi continuo che spacca le gambe. Di mio, sono soddisfatto. Ho scollinato senza problemi e devo ringraziare – credo – le rampe del Valcava fatte la settimana precedente e che sono pure peggio.

Infine l’arrivo. Un chilometro di gloria del tutto inattesa e, proprio per quello, ancora più bella. Il vialone del lungomare completamente transennato, due ali di folla e, in fondo, lo striscione dell’arrivo. Confesso di aver mollato il gruppo con il quale mi trovavo per ritrovarmi solo soletto a 20 all’ora a gustare quelle magiche sensazioni, sperando che quel rettilineo non finisse mai. Mi sono fotografato – lo so, non va bene lasciare le mani dal manubrio ma fa lo stesso- ho risposto a tutti gli incoraggiamenti ed i saluti e c’è mancato poco che, dall’alto del mio ridicolo tempo, alzassi le mani sotto lo striscione stirandomi la maglietta a favore di sponsor e telecamera.

Avrei altre mille cose di cui scrivere. Lo spazio – quando si dice il bello della rete – non manca. Mi spiace deludervi ma temo che andrò avanti per un altro po’. Mi piacerebbe raccontarvi della incredibile organizzazione del Gc Fausto Coppi, della calorosa accoglienza, del villaggio di arrivo e di partenza. E di mille altre curiosità. Insomma, abbiate pazienza della prolissità di un giornalista di provincia che fa finta di sentirsi un ciclista.

E se qualcuno dei brianzoli in corsa volesse regalarmi alcune delle sue sensazioni, beh, sono qui per questo. Due ruote e una gamba. Non necessariamente la mia.

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