Ridate la bicicletta ai nostri figli

Dicono che fanno poco sport, che sono grassi e distratti. Ma ci siamo mai chiesti perché? Qualche riflessione applicata al mondo del ciclismo

Mi viene il sospetto che sia ormai diventata un’ossessione di taluni colleghi dal grilletto facile e dalla creatività finita da tempo in soffitta. Basta scorrere i giornali, nelle pagine dedicate al ciclismo, per scoprire che l’argomento principale è il doping, manco si vivesse a pane e siringhe. E non prendetevi neppure la briga di rivolgervi alla rete: la parola doping in Google, per l’intera prima pagina, è tutta dedicata allo sport delle due ruote, come se tutti i piccoli diavoli di questo mondo andassero in bicicletta. Eppure basterebbe rimandare a una bella intervista del professor Alessandro Donati (atleta e massimo esperto del settore) per leggere che “il ciclismo ha toccato per primo il fondo ma a un certo punto ha iniziato a rispondere a questi scandali inasprendo e stabilendo delle regole più efficaci. Il controllo soprattutto ematico, sta portando a una situazione molto più vicina alla normalità biologica”. In altre parole, se c’è qualcuno che sta cercando di fare le cose sul serio sono i ciclisti e viene da chiedersi – se questo è vero – perché in prima pagina ci finiscono quasi sempre le triste vicende dell’americano furbetto dei sette tour o le confessioni che spuntano qua e là in una specie di gara a chi la spara più grossa, perché altrimenti non ti becchi neppure il titolo.

L’ho fatta già fin troppo lunga. In realtà, in queste settimane di semi-riposo da prestazione (fa un freddo boia), sono rimasto colpito da uno studio secondo il quale le generazioni che ci hanno preceduto erano più prestanti dal punto di vista fisico. Se non in senso letterale, quantomeno nella consuetudine alla fatica. Correvano di più ed erano più magri, insomma. Sono rimasto un po’ sconcertato da queste affermazioni di principio all’insegna del si stava meglio quando si stava peggio. E non ho neppure tanta voglia di ricordare che si era più magri perché si mangiava poco e male, perché c’erano le guerre e si correva di più semplicemente perché la mobilità applicata al motore (non quello umano) era cosa di pochi.

Resta il fatto che, questo è vero, abbiamo trasformato i nostri ragazzi in macchine da sport. Che è cosa diversa dall’essere sportivi. Inseriti in società sportive super organizzate con tuta marchiata e borsone, standardizzati in orari precisi e attività ben definite, quasi fosse un corso professionale e non già lo sfogatoio più libero e bello del mondo. Nessuno, ovviamente, prende il pallone sottobraccio e scende nel parchetto per tirare quattro calci fin quando scende il buio. E lo stesso vale per la corsa, il basket e ovviamente per il ciclismo. Ci sono ragazzi che, durante gli allenamenti, masticano decine di chilometri a cento pedalate al minuto – o infilano una ripetuta dietro l’altra fino a sfiancarsi – e poi, per andare all’oratorio a trecento metri da casa, si fanno dare un passaggio con l’auto di papà. Ma, se siamo arrivati a questo punto, forse è il caso di chiedersi il perché. Non serve essere filosofi da terze pagine, basta una domandina: mandareste vostro figlio in bicicletta a prendere il latte? Certo che no, e la colpa non è certo dei ragazzi che, dopo qualche titubanza, sarebbero i primi a godere di questa libertà. La realtà è che andare per strada in bicicletta è un terno al lotto, perché ci sono troppe persone che si muovono, troppe automobili, troppi camion., troppe strade. Soprattutto a queste latitudini e non è un caso che il ciclismo prosperi in particolari zone d’Italia, dove la vita è ancora a misura d’uomo e c’è la concreta speranza di farsi qualche sgroppata senza per forza slalomeggiare nel traffico incolonnato o impazzito, a seconda degli orari.

Altro che studi sull’inefficienza fisica o la voglia di vita comoda. Avessimo avuto più cura del creato, costruendo le case dove c’era richiesta di case e non costruendo case per trovare acquirenti, forse staremmo tutti meglio. E pedaleremmo un po’ di più.

L’unica speranza, che fonda però su una certezza, è rappresentata dal fatto che la passione per il ciclismo è più forte di tutto. Mi è capitato più volte – ahimè – di dover raccontare di giovane vite stroncate in bicicletta dall’automobilista distratto o dalla strada troppo pericolosa se non sei alla guida di un tir. Ricordo in particolare la mamma di un ragazzo di 17 anni di una società ciclistica della zona, morto in una scarpata soltanto perché aveva preso una Brutta curva un po’ troppo larga. Avrebbe avuto motivi a sufficienza per odiare le biciclette e chi ce l’aveva portato, il suo figliolo, su quella bicicletta. E invece l’anno dopo, l’ho rivista sul palco delle premiazioni, a consegnare una coppetta a un coetaneo del figlio scomparso in una corsa dedicata alla sua memoria. Non lo odiava, il ciclismo, quella signora dal cuore grande. Proprio per questo, anziché batterci gli zebedei leggendo studi che trasudano filosofia, dovremmo lottare tutti insieme perché i nostri figli possano divertirsi – con un pallone o una bicicletta – in tutta sicurezza. E vedrete che torneranno magri e scattanti.

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