Scusate il ritardo

Scusate il ritardo. E’ proprio il caso di dirlo. Un po’ perché non ho aggiornato come avrei voluto (ma non potuto) il blog. E un po’ perché questa frase – scusate il ritardo, appunto – è la morale perfetta della vicenda di cui vorrei confrontarmi con voi ciclisti. Il riferimento, manco a dirlo, è alla confessione di Lance Amstrong, il ciclista americano guarito dal cancro e vincitore di sette tour de France consecutivi che, di fronte ad una giornalista un po’ appesantita dagli hamburger e dall’emozione per l’imminente scoop, ha detto che lui si è sempre dopato. Per andare più forte e per vincere le corse.
Scusate il ritardo, viene da dire. Ma non tanto al ciclista, perché ormai nel nostro ricordo, resterà soltanto un Amstrong, quello che è andato a piantare la bandierina sulla Luna. No, l’aspetto più fastidioso dell’intera squallida storia è il comportamento di tanti colleghi (giornalisti, non ciclisti) che, sistemata la penna all’orecchio come certi macellai dei miei tempi, si tuffano a piedi uniti – anzi, no, a bomba – nel mare magnum dell’ipocrisia. C’è chi titola di vergogna, chi racconta i suoi anni vissuti accanto all'imbroglione (ma l’altro era in bici, lui al traguardo o al massimo sull’ammiraglia). E via via borbottando, quasi fosse una gara a chi la spara più grossa. Atteggiamento tipicamente italiano, quello del tiro a segno al pianista. La nostra verve sportiva, del resto, dà il meglio nel salire o nello scendere dal carro del vincitore, disciplina nella quale siamo un’autentica eccellenza.
Noi, che la domenica andiamo in bicicletta con l’unica accortezza medica di evitare di bere il latte per non dare di stomaco, almeno abbiamo l’alibi dell’ingenuità. Ma loro, quelli che adesso riempiono pagine e teleschermi per impiccare al cappio dell’ascolto un atleta che è già morto di suo, dove erano quando Lance Amstrong vinceva i suoi tour de France, sprintando come una motoretta, inseguito soltanto dagli aggettivi, rigorosamente superlativi? E, in tutti questi anni, come si sono comportati con il Simeoni (brianzolo di origine, non a caso) che confessò, puntò l'indice e poi venne cacciato dal circo dorato. Prima da Amstrong, poi dai colleghi tutti e infine dallo stesso Giro d’Italia? La stessa parabola toccata al Farina del calcio scommesse, se ci pensate. Bene, bravo, bis ma una maglia da calciatore non te la diamo più e, se ce l’hai, porta il tuo cervello in fuga.
Insomma, ho l’impressione che la situazione sia tragica ma non seria. Mi si obietterà che tutto questo non cancella quanto ha fatto Amstrong. Forse è vero, ma mi resta il dubbio, che non fosse la sola pecora nera in un gregge di immacolati. Eppure, archiviato l’ondata di sdegno collettivo post-confessione, non mi sembra di intravedere epurazioni di massa, inchieste nei misteri delle due ruote, viaggi nel mondo della medicina applicata allo sport. Eh sì, perché prima o poi dovremmo pur dircelo. Nel ciclismo ci sono tanti casi di doping solo perché esistono tanti controlli e se per caso un corridore ha la figlia ammalata da portare al pronto soccorso fuoriporta, è buona cosa che informi l’Uci. Sia mai che bussino a casa e non lo trovino, come da programma protocollato.
Massì, madama la marchesa, in fondo va benissimo così. Al sistema e a quasi tutti noi. Il texano ha confessato – che in più è americano e senza Dio e senza patria, come diceva quello dei treni in orario - il Simeoni fa il barista in Liguria e il Farina sta a Londra che c ‘è la Manica e le sue silenziose grida di dolore non arrivano sul Continente. E, per dargli un taglio, io vi chiedo: davanti a tutto ciò, siete sicuri che la cosa più importante sia stata quella striminzita, anonima, patetica confessione televisiva in prime time?
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