Marilyn, un mito tra amore e morte

Per capire il perché di una fine bisogna sempre partire dall’inizio. È l’unico modo di scoprire perché una donna come Marilyn Monroe - bella da levare il respiro, una calamita come le stelle e la luna - soffrisse così tanto e non trovasse mai pace. Alfonso Signorini parte proprio da lì, da una donna qualsiasi in lotta con la madre che finirà al manicomio. Una donna che un giorno si accoppierà con un uomo qualsiasi e da quel rapporto nascerà lei, Norma Jean, la donna che il mondo avrebbe conosciuto e amato come Marilyn Monroe, l’attrice che avrebbe ipnotizzato l’America, steso tutti gli uomini, incantato tutte le donne, catalizzato l’attenzione degli eserciti, fatto l’amore attraverso le telecamere, distrutto almeno due matrimoni, fatto sentire ogni uomo come se fosse l’unico, messo a rischio la carriera di un presidente. Lei era Marilyn, quell’oca bionda che ancheggiava come nessuna mai, che infilava una gaffe dietro l’altra, che formava una coda di uomini adoranti anche quando non era ancora una diva. Era una donna che poteva avere chiunque; sulle sue labbra (e non solo quelle) sognavano milioni di uomini. Eppure, come rilevò uno di loro, i suoi occhi erano due profondi laghi di tristezza. Lei era Marilyn, la seduzione fatta  persona. Ma era anche una bambina cresciuta chiusa in un armadio perché sua madre, che sarebbe finita al manicomio come sua nonna, non sopportava di essere seguita dai suoi occhietti. <+G_CORSIVO>Marilyn. Vivere e morire per amore<+G_TONDO> di Alfonso Signorini è un libro crudo, duro, drammatico. C’è poco di quel fascino, della leggerezza, della brillantezza dei diamanti, della comicità che permeano le commedie che l’hanno resa immortale. Nel libro si parla di <+G_CORSIVO>Quando la moglie è in vacanza<+G_TONDO>, <+G_CORSIVO>A qualcuno piace caldo<+G_TONDO>, <+G_CORSIVO>Come sposare un miliardario<+G_TONDO> ma il direttore di <+G_CORSIVO>Chi<+G_TONDO> indugia più nel dietro le quinte. Parla di un’attrice che sa quello che vuole e quello che non vuole fare. «Non canterò mai con te, Frank, non reggerei il confronto con Sinatra» dice una volta. «Dì a Madame Coco che non faccio la pubblicità dei suoi vestiti, il profumo va bene, ma lo sai come sono fatta se ho voglia esco con un maglione e un paio di jeans», si impunta in un altro momento. Ma nel libro non c’è solo questo. C’è il tormento di una bambina che si affezionerà a un cane e poi a un pianoforte e poi a una famiglia di riserva dove la mamma la parcheggia dal lunedì al venerdì. Una bambina che soffrirà ogni volta che le strapperanno ciò che ha di più caro. Che si domanda perché nessuno la voglia, una bambina violentata da un uomo a 11 anni. La Marilyn che tutti conoscono ha avuto alle spalle tutto questo. E se quando era viva la gente vedeva solo le sue curve, dopo la sua morte sono emersi i suoi abissi. È in queste voragini di autodistruzione che il libro scava. Marilyn sognava più di ogni altra cosa di diventare famosa. L’amore del pubblico era la sua aria. Ma impazziva cercando il vero amore, che pensava di aver trovato ogni volta salvo stancarsene qualche tempo dopo. Del primo marito, di Joe di Maggio, che l’avrebbe voluta tenere incatenata in casa per non soffrire di gelosia. Di Arthur Miller, che adorava per il suo essere intellettuale, ma finirà per tradire e odiare anche per la sua tirchieria. Nel libro di Signorini, Marilyn finisce a letto con tutti, o quasi. Fa l’amore con chi ama, non si vergogna di darsi a chi non ama. Scarta solo il matrimonio di convenienza con il principe Ranieri di Monaco che le viene proposto da Aristotele Onassis. E dice no anche a un produttore di Hollywood che lancerà comunque la sua carriera. Marilyn deve fare i conti ogni giorno con il germe della follia che ha rovinato la vita di sua madre e di sua nonna. Marilyn beve, di continuo, champagne anche alle 10 del mattino e vodka a litri («Così - dice - non lascia tracce quando devo baciare nei film»). Marilyn trangugia tranquillanti per trovare un sonno comunque permeato da incubi. Marilyn arriva in ritardo sui set, sposta folle oceaniche negli aeroporti, fa saltare i nervi a coppie di attori già famosi, finisce per compiacere qualunque uomo le proponga di finire a letto. Più la sua fama sale, più la sua salute cala. I tranquillanti la stanno distruggendo, ha le piaghe in bocca per le reazioni allergiche, quando va in depressione si chiude in casa e non vuole più uscire. Passa attraverso 14 aborti spontanei e la gioia di un figlio le sfugge. Kennedy, in questa storia, arriva solo alla fine e fa la figura di un piccolo uomo. Un codardo. Che prima vuole Marilyn a tutti i costi, ma poi cede al ricatto di Jacky O. e sceglie la presidenza degli Stati Uniti a quella bionda tutta curve e esaurimento nervoso che inizia a tempestare il centralino della Casa Bianca di telefonate. Il libro finisce con Bob Kennedy spedito a darle il benservito che si sente affidare questo messaggio. «Digli che non mi sentirà più. Digli che è stato la mia unica ragione di vita. La colpa è mia. Non sono mai riuscita a farmi bastare quel che avevo. Ero una modella? Ho voluto fare l’attrice. Ero un’attrice? Sono voluta entrare nella leggenda. Ero la moglie di Joe di Maggio? Sono voluta diventare la musa di Arthur Miller. E poi l’ultimo sogno. Il più ambizioso. Ho voluto dividere la mia vita con un uomo che non avrebbe mai potuto essere mio. Oh, non mi interessava che fosse il presidente. Ad affascinarmi era la sua irraggiungibilità. Volevo perdere. Volevo ferirmi a morte e ce l’ho fatta».

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