«’Ndrangheta padana
Una realtà diffusa»

Depositate le motivazioni della sentenza del processo d’appello Infinito

Le attività delittuose comprese tra Erba, Canzo, Mariano Comense e Bregnano

Già detto, ma ribadire non guasta: la ’nrangheta è viva e fa affari in mezzo a noi. A noi erbesi, a noi canturini, a noi comaschi, stretti lungo l’asse composto dalle “locali” di Canzo-Asso, di Mariano Comense e di Erba, per non dire della Bassa Comasca e delle attività sanguinarie commesse nel maneggio di Bregnano in cui, anni fa, fu massacrato e sepolto un tale che voleva essere affiliato.

Lo scrivono i giudici della corte d’Appello di Milano, che giusto ieri hanno depositatole motivazioni (circa 1700 pagine) in virtù delle quali, lo scorso aprile, 110 imputati si erano visti confermare quei secoli di carcere - equamente distribuiti - già inflitti in primo grado durante il processo “Infinito”.

Le condanne e lo sfogo del pm

I “comaschi” coinvolti sono, lo ricordiamo, Pasquale Giovanni Varca, ritenuto il capo della “locale” di Erba, condannato a 15 anni; l’ex titolare del Coconut di Eupilio Francesco Crivaro, condannato a otto anni e sei mesi; Luigi Vona, ritenuto capo della locale di Canzo - Asso, condannato a dieci anni; Rocco e Francesco Cristello, entrambi affiliati alla locale di Mariano, 10 anni il primo, otto il secondo; Simone e Salvatore Di Noto, quest’ultimo titolare del maneggio in cui fu ritrovato il cadavere saponificato di tale Antonio Tedesco, detto l’“Americano”, entrambi condannati a otto anni. E poi: 12 anni a Salvatore Strangio, socio del canturino Ivano Perego, titolare dell’omonima Perego strade (l’azienda che lavorò tra l’altro alla realizzazione del nuovo Sant’Anna, prima di finire risucchiata e prosciugata dall’organizzazione); sette anni per Luigi Varca, otto per Francesco Varca, otto anni e quattro mesi ad Aurelio Petrocca, tutti di Merone, ritenuti componenti della locale di Erba. Cinque anni e mezzo per Francesco Tonio Riillo, cinque per Giuseppe Furci di Valbrona, sette anni e quattro mesi a Michele Oppedisano, affiliato alla locale di Mariano Comense al pari di Edmond Como, condannato a quattro anni e due mesi; Nicola Minniti, sei anni e quattro mesi, Antonio Medici, sette anni e quattro mesi. Al di là delle condanne, già note, meritano due righe le motivazioni, che peraltro riprendono, almeno in parte, il contenuto dello sfogo del procuratore Ilda Boccassini, che lo scorso ottobre davanti alla commissione parlamentare antimafia tracciò un quadro sconfortante dei rapporti tra crimine organizzato e società civile nel nord della Lombardia.

Radicata e diffusa

Scrivono i giudici d’appello: quella che può definirsi la «’ndrangheta padana è ben radicata e diffusa», è in parte autonoma rispetto alla casa madre calabrese, opera nella «diffusa omertà che porta le vittime a subire senza denunciare, a nascondere piuttosto che a rivelare». I giudici scrivono anche di quel processo di «emancipazione e interazione tra le locali di neoformazione in territori nordici», della «influenza delle cosche in vari settori dell’attività economica» e poi dei «tentativi, anche riusciti, d’infiltrare le amministrazioni locali per ottenere vantaggi». Si aggiunga, a tutto questo, «l’assoggettamento delle vittime» degli episodi di intimidazione, «che s’asterranno dallo sporgere denunce. Per paradosso, scrive la Corte d’appello, «la prova dell’esistenza del sodalizio mafioso affiora invece dalla sua stessa negazione, dalla diffusa omertà che porta le vittime a subire senza denunciare, a nascondere piuttosto che a rivelare». S. Fer.

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