Il tessile di Como
teme i debiti delle griffe

L’atmosfera è pesante per il crollo delle vendite di abbigliamento nel mondo. Non solo. ma ora c'è la crisi dei gruppi di moda con i quali i produtori comaschi lavorano da molto tempo. Ma l'incubo per il distretto ora sono i pagamenti e le licenze. Entrambi a rischio.

Reduci da «Première Vision», il salone che richiama a Parigi i più importanti nomi della confezione internazionale, gli imprenditori tessili comaschi confermano un maggior dinamismo del mercato mentre aumenta la paura per la bufera che ha investito i big del lusso. Alla vigilia delle sfilate femminili, in scena da domani a Milano, l’atmosfera è pesante per il crollo delle vendite di abbigliamento nel mondo. Non solo. C’è poi la crisi del gruppo Burani, a pochi mesi dallo stato d’insolvenza della It Holding, un altro incubo per il distretto.

L’azienda è al centro di una dura trattativa con le banche per la rinegoziazione del debito, alla fine del primo semestre 2009 l’eposizione era di 478 milioni. Secondo gli ultimi dati, il malessere del made in Italy è però generalizzato, a rischio la sopravvivenza di chi sta a monte e produce tessuti per le più prestigiose passerelle. Condivide i timori sul possibile valzer di fallimenti e riassetti il presidente di Confindustria Como, Ambrogio Taborelli.

«Tra le infinite incognite adesso dobbiamo affrontare anche la debolezza di partner strategici che navigano in cattive acque. I casi critici - sottolinea Taborelli - non sono solo italiani, molti problemi riguardano marchi stranieri colpiti a cascata dalla recessione. Sono a rischio pagamenti e contratti di licenza proprio nel momento in cui le casse delle aziende avrebbero bisogno di una boccata di ossigeno». Più che la contrazione degli ordini, i tessitori lariani temono una mazzata finanziaria.

«C’è molto cautela nell’acquisizione delle commesse perché l’indebitamento di certi gruppi ha messo in allarme le compagnie di assicurazione - continua Taborelli -. Ogni giorno piovono richieste di allungare i pagamenti. Se le banche non sono pronte a scommettere ancora sul tessile, non avremo più soldi per finanziare la ripresa». Anche Mario Boselli, imprenditore tessile e presidente della Camera nazionale della Moda, teme che qualche altra tegola possa abbattersi sul tessuto connettivo del sistema. «Si vive col fiato sospeso - spiega Boselli -. Le assicurazioni hanno assunto una linea dura e quindi non siamo completamente al riparo dai rischi. Sotto la lente di osservazione celebri protagonisti del settore, anche se benchmark come Armani continuano a tener alta la bandiera del made in Italy. Ad aggravare la situazione c’è poi la stretta creditizia, un nodo gordiano per le imprese in asfissia di liquidità».

Ma, come mai, la moda francese sembra aver retto meglio lo tsunami? «Vanta una struttura completamente diversa - risponde il vertice della Camera della Moda - che fa perno su due pilastri solidissimi (Lvmh e Ppr, che controlla Gucci Group), aggregazioni strategiche che da noi non sono mai andate in porto. Forse, ci arriveremo tra cinquant’anni». «Ci sono marchi dell’esclusività come Hèrmes in assoluta controtendenza - sottolinea Michele Canepa -. Le vendite della griffe sono continuate a crescere. Anche in Italia non tutti sono così in affanno: c’è chi sta meglio e chi sta peggio. Evidente che i flussi negativi di cassa influenzeranno la raccolta ordini. Secondo una recente indagine commissionata dai tessitori europei, si stima un calo compreso tra il 35 e il 45%».

«Per cavarcela - continua l’indutriale comasco - dobbiamo assolutamente contare sull’intervento del governo che finora non ha fatto niente per il tessile. Il mercato dell’auto è stato salvato dagli incentivi, come quello degli elettrodomestici. Le nostre richieste di aiuti pubblici sono invece sempre cadute nel vuoto». Canepa invoca due provvedimenti urgenti: anticipare i rimborsi Iva e detassare gli interessi passivi «su soldi magari chiesti in prestito per pagare le gabelle di Stato». Gabelle che gravano persino sul monte salari «penalizzando paradossalmente chi non ha ridotto la mano d’opera o non ha fatto ricorso alla cassa integrazione».

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