Cremazioni a Biella: nessun processo
«Ma qualcuno deve pagare»

Valentina Nava di Ponte Lambro: «Chiedevamo una condanna esemplare per quegli orrori»

«Chiedevamo una condanna esemplare, invece si è arrivati all’archiviazione. Qualcuno deve pagare per quanto successo».

Non ci stanno i parenti dei defunti cremati al tempio crematorio di Biella, il forno degli orrori che secondo le accuse bruciava i cadaveri più di uno alla volta, insieme ad altro materiale. Non accettano la decisione del Giudice per le indagini preliminari di Biella di accogliere la richiesta di archiviazione formulata dal Pm per tutti i procedimenti penali conseguenti alle oltre 500 denunce/querele presentate per conto dei familiari a seguito delle indagini dei carabinieri che avevano portato a formulare accuse per distruzione e soppressione di cadavere, truffa, gestione pericolosa di rifiuti, istigazione alla corruzione.

La vicenda riguardò anche la cremazione di 230 comaschi finiti a Biella perché nel periodo incriminato, cioè dal marzo 2017 e l’ottobre 2018 il forno di Como non era in funzione. Per quei fatti lo scorso ottobre erano stati condannati a cinque anni di carcere i due fratelli che gestivano l’impianto, accusati di avere bruciato più bare insieme e di averlo fatto per aumentare la resa e i ricavi del loro business.

Tra i parenti comaschi c’è anche Valentina Nava di Ponte Lambro che subito dopo aver scoperto dai giornali e dalla tv quanto accadeva a Biella subito aveva deciso di aderire all’azione legale intrapresa dal Codacons con l’avvocato Alessandra Guarini.

Valentina, 35 anni, aveva appena perso la mamma Cinzia Magni, morta a soli 54 anni il 7 giugno 2017. «Abbiamo fatto il funerale il giovedì e il venerdì mattina veniva cremata - spiega - Tra l’altro in un lasso di tempo di un’ora che col senno di poi risultava troppo veloce per gli standard. Quando ad agosto abbiamo saputo dell’inchiesta abbiamo deciso di fare l’esame comparato del Dna con il generale Luciano Garofano. All’inizio sembrava che all’interno dell’urna di mia madre ci fossero due Dna, di cui uno era di mia madre perché raffrontato al mio. Poi è saltato fuori che il Dna era uno, ma con resti non umani. Da lì è partita la denuncia penale».

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