Anni da barabitt
per una ribellione

Ronago: la storia di Enrico Fontana, 83 anni, occhi vivaci che ridono mentre la mente ripercorre un viaggio nel passato, fino ad arrivare allo scolaro di terza elementare che commise l’errore di ribellarsi al potere stabilito, nel periodo sbagliato. Anno 1938, elementari di Ronago, mattina di fine marzo, Enrico non lo sa ma quella sarà la sua l’ultima giornata in quella scuola. Il giorno dopo verrà trasferito all’istituto Somaini pro-corrigendi

RONAGO Ottantatré primavere sono passate sul viso di Enrico Fontana senza tracciare grandi solchi e lasciando lo sguardo fermo al tempo dei giochi; occhi vivaci che ridono mentre la mente ripercorre un viaggio nel passato, fino ad arrivare allo scolaro di terza elementare che commise l’errore di ribellarsi al potere stabilito, nel periodo sbagliato. Anno 1938, elementari di Ronago, mattina di fine marzo, Enrico non lo sa ma quella sarà la sua l’ultima giornata in quella scuola. Il giorno dopo verrà trasferito all’istituto Somaini pro-corrigendi, diventando a tutti gli effetti un barabitt. «Io mi ero limitato a rispondere alla maestra della mia scuola di Ronago, con la sua stessa arma - racconta ridendo - quella mattina avevo urgenza di andare in bagno e alla mia richiesta un tantino rumorosa lei mi aveva invitato alla cattedra e davanti a tutti pestato le dita con la bacchetta che usava come frusta. Io ho aspettato che la appoggiasse sulla cattedra e mentre si girava per tornare a sedersi, tacchete, le ho dato una bella battuta sulla schiena, apriti cielo. Mi ha preso per le orecchie e messo in castigo dietro alla lavagna dove c’era il contenitore dell’inchiostro che ogni mattina era versato nei calamai, allora ho pensato che se mi scappava la pipì potevo farla dentro a quel coso, detto e fatto. Il pomeriggio arrivò il prete a casa mia per parlare con mio padre e il giorno dopo mi accompagnarono al collegio dei barabitt, l’avevo combinata grossa e, a pensarci bene, io avevo tutte le caratteristiche del barabitt: ribelle, curioso, indipendente e mica tanto disposto a tacere e obbedire. Tale sono rimasto».
E i primi mesi in collegio? «Guardi, io sono entrato pensando solo a una cosa: come uscirne. Passavo giorni e notti organizzando mentalmente la fuga perfetta, non avevo paura come tanti dei miei compagni delle punizioni e delle minacce continue, io dovevo tornare a casa e basta».
L'intervista completa su "La Provincia" del 17 novembre 2009

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