Il racconto di Vitali/3:
Era stato tutto un incubo

Ecco la terza puntata del racconto «Documenti, prego» di Andrea Vitali. Nelle prime puntate il protagonista, durante una sosta in autogrill, viene prelevato da due misteriosi agenti, che dopo un tragitto in auto lo depositano in una sorta di centrale claustrofobica

So, ( sapevo ), che l'invito gentile avrebbe riguardato l'altro, l'ultimo prima di me.
Ero anche convinto che all'apertura della porta, oltre all'invito gentile, sarebbe entrata anche una lama di luce.
Luce di alba, di giorno che nasce.
La notte, per quanto lunga, il buio, tutti e due assieme, mano nella mano, non possono essere infiniti.
L'invito gentile arrivò, arrivò anche una striscia di luce, l'altro si alzò, obbedì, restai solo.
Uno.
Molte volte mi sono immaginato penzolare da una corda, impiccato. Impiccamento, secondo il lessico della medicina legale. Nessuna sentenza mi condanna a tale fine. Lo faccio di mia spontanea volontà. Mi tolgo il pensiero. Se mi avessero dato una corda a quell'ora, in quella stanza.
Invece cominciai ad avvertire l'impellente bisogno di pisciare. Il baffetto aveva detto che per i bisogni potevamo uscire.
Potevamo, aveva parlato al plurale.
Dissi a quelli che erano stati nella stanza che andavo a pisciare. Ovviamente non mi rispose nessuno, visto che ero solo.
Mi alzai, aprii la porta, uscii.
C'era la luce dell'alba, i rumori del faticoso cominciare delle giornate.
Odore schifoso di caffè.
Nel corridoio c'era un anonimo andirivieni di persone che non si curavano minimamente di me.
Nel corridoio c'è un concerto di passi, c'è il colore bianco delle camice, ci sono sguardi rivolti verso qualcosa, si sentono parole spezzettate, nell'aria c'è il pulviscolo delle cose scritte che si sono liberate dalla carta, ci sono uomini e donne che mai più rivedrò, c'è un odore umano, c'è il rumore dei miei piedi, c'è il cartello che indica dove sono i cessi, io non ho più voglia di pisciare, voglio solo uscire, ne fermo uno in maniche di camicia, gli chiedo dove sta l'uscita, mi risponde che non c'è uscita, mentalmente gli do dell'imbecille, così come si entra si esce anche da un luogo, proseguo, vado oltre i cessi, l'uscita la troverò da me, mi ricorderò della risposta di quello in maniche di camicia, trovo l'uscita, esco, è una mattina di nuvole, l'aria ha un sapore di ferro, c'è una stazione di taxi, mi avvicino, il taxista mi fa segno di essere libero, gli chiedo dove siamo, lui risponde che gli interessa di più sapere dove voglio andare, glielo dico, dico a casa, l'indirizzo chiede quello, glielo do, salgo partiamo andiamo arriviamo.
A differenza di tanti suoi colleghi era silenzioso.
Gli diedi una bella mancia.
Poi scesi dal taxi e mi svegliai.
Ero in un bagno di sudore.
Sono in un bagno di sudore. Devo fare mente locale. La prima cosa che realizzo è il buio. Poi che è martedì. Un martedì d'autunno. Mia moglie dorme. Dorme anche mio figlio. Di riprendere il sonno non è nemmeno da pensare. Guardo le ore, sono le sei. Esco dal letto, scendo in cucina, mi preparo il caffè. Accendo la tivù, do un'occhiata al televideo, lo sport, poi le notizie dal mondo. Ripenso al sogno che mi ha rovinato la notte. Ho dimenticato qualcosa. Cerco di concentrarmi. Non c'è niente da fare ma alla fine non me ne frega niente. I sogni sono così, svaniscono all'alba. E l'alba sta sorgendo. È una giornata come tutte le altre con un brutto sogno alle spalle. Continuo a pensarci. C'è qualcosa che mi sfugge. Mi faccio la barba. Mi aspettano numerosi appuntamenti di lavoro. Decido di prendere la macchina lasciando perdere i mezzi pubblici. Mi muovo per casa cercando di non fare rumore. L'alba è sorta ma ha un colore sporco, di nuvole che porteranno acqua. L'aria ha un sapore di sottobosco. C'è qualcosa che vorrei ricordare del sogno. Chiudo la porta di casa. Nel silenzio delle prime ore del giorno sento il rumore preciso, severo, definitivo della porta che si chiude. Mi avvio verso il garage. Continuo ad avere quel tarlo in testa, quel ricordo del sogno che non riesco a mettere a fuoco. Poi mi chiedo se, dopo la notte, vale la pena che mi rovini anche la giornata per colpa di quel baffetto di merda. Che vada a rovinare le notti di qualcun altro, mi dico, mentre la porta del garage si apre. Uso poco la macchina, solo in giornate come questa nelle quali ho troppi appuntamenti di lavoro. Sette, se non ricordo male, forse otto. È tutto segnato sulla mia agenda, nella borsa coi documenti di lavoro. Quella che il baffetto questa notte mi aveva sequestrato, dicendo che non sarebbe andato perduto nulla. E che invece mi aspetta sulla scrivania, in ufficio. Per non trovare traffico, questa è l'ora migliore. Tempo trenta minuti e sulla strada si riverserà l'universo, operai, impiegati, studenti. Il cielo è sempre cupo. L'asfalto è lucido. Sugli alberi ai lati della strada ci sono ancora parecchie foglie. Mio figlio dice che le foglie parlano, che dicono anche le parolacce.
La parolaccia la dissi io quando, fatta una curva, un uomo in divisa, paletta in mano, mi fece segno di accostare. Avrei perduto tutto il vantaggio sul traffico. Non ero andato oltre i sessanta all'ora di legge, non avevo commesso infrazioni. Obbedii comunque all'ordine, accostai, abbassai il finestrino, chiesi cosa avevo fatto.
La risposta mi lasciò di stucco.
«È un semplice controllo».
Poi l'uomo in divisa mi chiede la patente e gliela do.
La strada cominciò ad animarsi. Stavo cercando di ricordare a che ora, dove e con chi avessi il primo appuntamento della giornata. Picchiettavo le dita sul volante. Maledicevo il destino. Fermare me o un altro era lo stesso. Era toccata a me. Guardai l'ora, le sette e mezza. Ormai il traffico era pieno, formato. Avrei impiegato quasi un'ora per raggiungere l'ufficio.
Sto facendo conti, sto calcolando quanto ritardo avrò col primo appuntamento, sto cercando di ricordare a che ora è il primo appuntamento quando l'uomo in divisa finalmente torna verso di me, la mia patente in mano, tenuta tra due dita, sventolata in aria, una specie di sorriso sulla faccia.
Sulla strada sfrecciano gli invincibili camion, enormi, rumorosi.
La domanda giunge chiara alle mie orecchie.
«Documenti, prego».
Mi viene da ridere. È la stessa richiesta che mi ha fatto il baffetto nel sogno. Il sorriso dell'uomo in divisa scompare quando vede il mio. Cosa c'è da ridere, mi chiede. Niente, rispondo. Figurarsi se mi metto a perdere tempi spiegandogli del sogno che mi ha rovinato la notte. Piuttosto facciamola finita in fretta, penso, con tutte le cose che ho da fare. Prendo il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni.
Il mio documento d'identità non c'è.
Non ho bisogno di dirlo.
«Ecco», dice l'uomo in divisa.
«Lo sapevo», aggiunge.
C'è un pulviscolo nell'aria, odore di gas di scarico. Il traffico è sempre più intenso. L'uomo in divisa mi invita a scendere dalla macchina. Mi chiede di farlo senza opporre resistenza, altrimenti.
Scendo.
Scesi.
Nel breve tragitto tra la mia macchina e la sua, quattro passi, trovai la voce per chiedere cosa diavolo stesse succedendo. Dovetti gridare sopra il rumore del traffico. L'uomo in divisa mi fece un gesto per indicarmi di salire in macchina.
È un gesto che non ha la minima ombra di gentilezza, è una sberla all'aria. È come se mi dicesse non mi stia più a scocciare, obbedisca e basta. Forse mi da anche del tu.
Salii sulla sua macchina. Dietro, lui di lato. Davanti un autista che aspettava ordini. L'autista fa per girare le chiavi.
Aspetta, dice l'uomo in divisa.
Poi gira appena la faccia verso di me, pare che parli col finestrino.
Parla e dice.
Dice: «Pare che questa notte, alle prime luci dell'alba, si sia allontanato mentre si stavano facendo dei controlli su di lei».
Disse così. Dice o disse, fa lo stesso. Perché il tempo non conta. È finito o infinito. Il traffico scorre ma è quello di sempre, a quell'ora.
Disse, dice, muovendo appena le labbra.
Feci per rispondere ma il rumore delle chiusure automatiche delle portiere mi tolse il fiato.
Il suo documento d'identità, peraltro scaduto, è ancora negli uffici, insieme con la borsa dei documenti.
Vorremmo sapere perché, disse.
Perché si è allontanato senza il necessario permesso. Perché si è comportato come se avesse qualcosa da nascondere.

Andrea Vitali

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